Rivedere l'Iva per tagliare l'Irpef. Il sentiero stretto della riforma fiscale
Il documento approvato della Commissione Finanze chiede di razionalizzare il sistema e ridurre la pressione sui fattori produttivi. Ma con quali risorse? L'unica strada percorribile per il governo è una revisione delle aliquote Iva, per abbassare le tasse sul lavoro e rilanciare la competitività
Dopo il lavoro della Commissione parlamentare sulla riforma fiscale, il governo e in particolare il ministro dell’Economia Daniele Franco si troveranno di fronte a due soluzioni. Una riforma light e una hard. Nel primo caso, un riordino del sistema: eliminare le distorsioni alle aliquote marginali, razionalizzare la tassazione sui redditi da capitale, superare l’Irap, sfoltire le tax expenditures, togliere i disincentivi alla crescita... ma lasciando più o meno invariato il carico fiscale. Si tratterebbe comunque di una riforma importante, con indiscutibili benefici, ma parziale rispetto all’altro obiettivo indicato dai partiti nel documento conclusivo che è quello di ridurre la tassazione sui fattori produttivi (lavoro e capitale).
La riforma fiscale in versione hard, invece, si occuperebbe anche di questo obiettivo, un po’ come avvenuto con la riforma del 2008 in Danimarca citata da Mario Draghi nel suo primo discorso al Senato. E la si può fare in due modi: riducendo la pressione fiscale complessiva o modificandone la composizione a parità di gettito. Come ricordava sul Foglio Sandro Brusco, “una riduzione permanente delle entrate deve essere accompagnata da una riduzione permanente delle uscite”, ma, visto che nessuno vuole un taglio significativo della spesa, questa strada è sbarrata in partenza. Pertanto, l’unico modo è intervenire sulla composizione del prelievo, cioè spostando il carico dai fattori produttivi su altro. Anche in questo caso le scelte sono due: patrimoni o consumi.
La prima strada è impercorribile: i partiti non hanno espresso alcuna posizione perché sono molto divisi e, in un paese come l’Italia, toccare i patrimoni crea enormi problemi di consenso. E’ certamente auspicabile una riforma del catasto, con l’aggiornamento di valori catastali che non corrispondono più neppure lontanamente ai valori reali di mercato, ma dati i vincoli politici ciò può avvenire solo a invarianza di gettito, ovvero redistribuendolo tra i proprietari. Ma questo implica che da qui non arriverebbero risorse per ridurre significativamente l’Irpef. L’altra strada, l’unica rimasta, è intervenire sull’Iva. Al tema la commissione riserva appena tre righe, parlando di una “ridefinizione della disciplina Iva ai fini di una sua opportuna semplificazione e di possibile riduzione dell’aliquota ordinaria”. Questa formula criptica non esclude un aumento del gettito Iva: si può infatti ridurre l’aliquota ordinaria e “semplificare”, accorpando le aliquote agevolate a un livello superiore a quella minima del 4%, per ottenere maggiori entrate da usare per tagliare le tasse sul lavoro.
Questo intervento presenta alcuni vantaggi strutturali: farebbe recuperare diversi miliardi di evasione eliminando la possibilità di arbitraggio tra le aliquote agevolate; farebbe guadagnare competitività al sistema produttivo attraverso una “svalutazione fiscale” (l’aumento dell’Iva colpisce le importazioni ma non le esportazioni, mentre queste ultime vengono favorite dalla riduzione delle tasse sui fattori produttivi). Ci sono, ovviamente, dei possibili effetti negativi. Uno è un aumento dell’inflazione, ma adesso non è un problema. L’altro, più rilevante, è un effetto regressivo: se aumenta l’aliquota Iva agevolata, si riduce il potere d’acquisto dei più poveri. Ma si può compensare questo effetto abbassando l’Irpef ai più poveri, introducendo specifiche detrazioni o trasferimenti. Le risorse possono arrivare da una revisione delle tax expenditures, prevista dalla riforma, tagliando proprio i bonus più inutili e regressivi.