I problemi della successione
Figli e nipoti della ricchezza
John Elkann si rafforza nel gruppo Agnelli. Dai Ferrero ai Benetton, non è sempre facile la vita degli eredi
John Elkann stringe la morsa sull’impero Agnelli, insieme al fratello, alla sorella e a un paio di cugini; Marina Caprotti prende in mano non solo la proprietà, ma il timone della Esselunga; Leonardo Del Vecchio sistema il futuro a favore dell’ultima moglie e del manager da lui ha scelto; i Benetton dopo la sconfitta sulle autostrade sono alla ricerca di un leader autorevole e riconosciuto; mentre i De Benedetti escono dai riflettori. Che cosa sta accadendo nelle più note dinastie del capitalismo italiano? L’impresa familiare non è un’eccezione tricolore. Se escludiamo le botteghe e i piccoli negozi, prendendo solo le attività medio-grandi, scopriamo che rappresentano il 40 per cento del totale in Germania e in Francia, il 33 per cento negli Stati Uniti, senza contare l’India (il 55 per cento) o il Sud est asiatico (il 53 per cento), secondo le stime del Boston Consulting Group.
In Italia l’Università Bocconi calcola che le imprese di famiglia sono mediamente di taglia più piccola e coprono il 65 per cento delle aziende e il 60 per cento della Borsa. Tenere tutto tra le mura domestiche ha grandi vantaggi (stabilità, prudente innovazione, poter guardare in avanti, oltre il risultato trimestrale), insieme a chiari difetti (potere oligarchico, limite alla meritocrazia, conservazione), ma il vero handicap riguarda la successione. I giapponesi dicono che “la terza generazione rovina la casa” e in ogni paese c’è un detto simile. Il Family Business Institute sostiene che soltanto un 30 per cento sopravvive alla seconda generazione e appena il 12 per cento alla terza.
Le strategie di sopravvivenza seguono alcune ricette fondamentali. La prima è utilizzare azioni di serie A e di serie B con le quali contare di più possedendo meno, in questo i campioni assoluti sono gli svedesi Wallenberg, una famiglia che da sola controlla circa la metà delle grandi aziende e banche quotate alla Borsa di Stoccolma (tra le quali la Ericsson). Ma non vanno trascurati i giapponesi, come dimostra la dinastia Toyoda. Poi ci sono le fondazioni, e qui i tedeschi sono indiscutibilmente maestri imitati da molti vicini del nord; qualche nome tra gli altri: gli editori Bertelsmann o Bosch, il colosso della componentistica auto, in Olanda la Heineken, in Danimarca spiccano Carlsberg (birra) e Maersk (trasporti marittimi). Le piramidi societarie vengono chiamate scatole cinesi, ma sono nate in Giappone. Infine c’è il “nepotismo pianificato”, come l’ha definito George Garvin Brown IV, produttore del Jack Daniels e del Southern Comfort, considerato il re del whiskey americano che si distingue da quello scozzese e britannico non solo per la e, ma per gli ingredienti base, soprattutto mais invece di orzo. I Suzuki, come gli Agnelli, hanno usato una combinazione delle ultime due: piramidi e nipoti.
Ben istruito e instradato dal nonno, John Elkann ha mostrato grinta e abilità da molti inaspettate. In cima alla sua piramide c’è la Dicembre, una società semplice nata nel 1984 che vedeva tra i fondatori Gianni e Umberto Agnelli, Franzo Grande Stevens, Gianluigi Gabetti. Gli ultimi bilanci e patti parasociali risalivano a 37 anni fa, ma il Sole 24 Ore sabato scorso ha pubblicato le nuove regole e i nuovi assetti: John Elkann detiene il 60 per cento delle azioni, il resto del capitale è suddiviso in parti uguali: 20 per cento al fratello Lapo e 20 per cento alla sorella Ginevra. A questo nuovo equilibro si è arrivati in seguito a una serie di passaggi. Nel 1997, dopo la morte di Giovanni Alberto, il figlio di Umberto Agnelli, a soli 33 anni, l’Avvocato aveva deciso che l’erede sarebbe stato John. La sua quota del 24,87 per cento, dopo la scomparsa del nonno, era salita al 33,3 per cento, per arrivare al 58,7 con la triste uscita di scena della madre Margherita, seguita da strascichi giudiziari che hanno lacerato la famiglia. Nel nuovo statuto i tre fratelli hanno in mano anche la successione: se muore uno dei soci le quote vanno ai “discendenti consanginuei”. La Dicembre controlla con il 39 per cento delle azioni la Giovanni Agnelli Bv, incorporata in Olanda, dove i voti in assemblea valgono il doppio, modello Wallenberg (è uno dei motivi per i quali molte grandi aziende italiane si sono trasferite tra le dighe e i tulipani, non ultima la Mediaset di Silvio Berlusconi).
Le altre quote sono divise tra i vari rami dell’albero genalogico: i discendenti di Umberto (come il figlio Andrea) e Maria Sole, i Nasi, i Camerana, i Rattazzi, i Brandolini d’Adda. La famiglia allargata possiede il 53 per cento di Exor, anch’essa società di diritto olandese, quotata in Borsa, che detiene il 14,4 per cento di Stellantis (nata dalla fusione tra Fiat, Chrysler e Peugeot), il 22,91 per cento di Ferrari, il 26,89 di Cnh Industrial (camion e trattori), il 63,77 della Juventus e il cento per cento di Partner Re, gruppo riassicurativo con sede alle Bermuda. Vanno aggiunte poi le iniziative editoriali (il 43 per cento dell’Economist e il cento per cento della Gedi). Al comando c’è John con al fianco i cugini Andrea Agnelli che cura soprattutto la Juventus, e Alessandro Nasi. La capitalizzazione di Exor supera i 16 miliardi di euro, ma fattura 120 miliardi con 263 mila dipendenti. La Dicembre vale appena un centinaio di milioni di euro. John Elkann, con un patrimonio stimato di due miliardi di euro, è entrato per la prima volta nella classifica Forbes dei ricconi italiani, ma proprio la barocca struttura azionaria rende inaccurata quella stima.
Leonardo Del Vecchio, per esempio, appare personalmente molto più ricco: con 25,8 miliardi di euro si colloca al secondo posto in Italia dopo Giovanni Ferrero, che ha un patrimonio di 35 miliardi. La sua non è una piramide, ma piuttosto una stella, Delfin, attorno alla quale ruotano i diversi pianeti: la finanziaria lussemburghese possiede il 38 per cento di Essilor-Luxottica domiciliata a Parigi, il 28 per cento della immobiliare francese Covivio, dove sono confluiti i palazzi della Beni Stabili, il 19 per cento e rotti di Mediobanca, il 18 per cento dello Ieo, il 13 per cento della Luxair, compagnia aerea lussemburghese, il 4,82 per cento delle Assicurazioni Generali e quasi il 2 per cento di Unicredit. In Lussemburgo è custodita anche la successione. Le quote sono suddivise, in nuda proprietà, tra i sei figli (al 12,5 per cento ciascuno) nati da tre diversi matrimoni, e l’ultima moglie Nicoletta Zampillo (al 25 per cento). Tuttavia per ogni decisione è richiesto l’88,5 per cento del capitale. Nel marzo scorso è stata inserita nello statuto la clausola sulla successione: nel caso in cui Del Vecchio cessasse di avere la maggioranza di Delfin, o diventasse incapace di esercitare i suoi diritti, sarà subito rimpiazzato o da una persona di sua fiducia, designata da lui per iscritto (un atto o un testamento), o in mancanza dal più alto in grado vale a dire nell’ordine Mario Notari, Romolo Bardin, Aloyse May e Giovanni Giallombardo. Molti pensano che essendo Milleri il manager più fidato di Del Vecchio sarà lui a sostituirlo anche nella Delfin, una nomina a tempo indeterminato. Nepotismo pianificato, senza nipoti.
Al Copasir hanno suonato un campanellino già un anno fa. Un uomo d’affari di questa portata, che ha conquistato una posizione di primo piano nel cuore della finanza e punta a contare di più anche nelle Generali, la cassaforte che custodisce il risparmio degli italiani, opera in un (semi)paradiso fiscale, cioè il granducato del Lussemburgo: lì tre anni fa ha spostato la sua residenza da Montecarlo dove era approdato dopo aver lasciato Londra. Possibile che a 86 anni, giunto al culmine del successo, si comporti da raider come non aveva mai fatto prima? C’è chi ricorre alla biografia e parla di “rivincita dell’orfano” cresciuto nel collegio dei Martinitt. E chi evoca una guerra del mattone. Covivio è il quarto maggior gruppo immobiliare europeo, con un portafoglio complessivo di 24 miliardi di euro di controvalore e progetti per 8 miliardi di euro di progetti in Europa. Il business è concentrato nelle grandi città prevalentemente a Parigi (la Francia copre il 41 per cento del totale), Berlino, Milano e Roma, con piccole quote nel Regno Unito (4 per cento), Spagna (3 per cento) e Portogallo (2 per cento). La società investe soprattutto in immobili di lusso, uffici, alberghi. Nel settembre scorso, attraverso la sua controllata Covivio Hotels detenuta al 43,3 per cento, ha perfezionato l’acquisizione di otto residence in importanti destinazioni turistiche europee: Roma, Firenze, Venezia, Nizza, Praga e Budapest, per una somma di 573 milioni di euro. Tra gli hotel di pregio ci sono Palazzo Naiadi a Roma, il Carlo IV a Praga, il Plaza a Nizza o ancora il NY Palace a Budapest. Generali Real Estate è il tredicesimo più grande investitore immobiliare al mondo con un patrimonio sotto gestione di 33,2 miliardi di euro. Dunque, spunta il rischio di un conflitto d’interesse nel caso in cui Del Vecchio volesse influenzare a favore di Covivio le scelte immobiliari del Leone di Trieste.
L’operazione Mediobanca-Generali ha bisogno del sostegno di altri due azionisti forti, cioè Caltagirone e Benetton. Il costruttore romano per ora sta a guardare. Sulla famiglia Benetton pesa un doppio punto interrogativo: chi decide e che cosa. La capogruppo si chiama Edizione ed è una società a responsabilità limitata che racchiude il patrimonio di famiglia diviso in quattro rami attraverso quattro casseforti: Evoluzione, Proposta, Regia e Ricerca; nel consiglio di amministrazione siede un figlio di ciascuno dei quattro fratelli che, partiti dai maglioncini colorati mezzo secolo fa hanno costruito uno dei maggiori gruppi italiani: Alessandro figlio di Luciano, Franca Bertagnin di Giuliana, Sabrina di Gilberto e Christian di Carlo. Tutte le attività dalle infrastrutture all’abbigliamento, compresa l’azienda agricola Maccarese, fanno capo a Edizione (i ricavi complessivi nel 2019, ammontavano a quasi 18 miliardi di euro). A differenza da quel che hanno fatto altri la società italiana ha assorbito anche la lussemburghese Sintonia che possiede le attività nelle infrastrutture e nei servizi (Atlantia, Autogrill, gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, la spagnola Cellnex con le torri per le telecomunicazioni). Dopo la morte nel 2018 di Gilberto, artefice del passaggio dall’abbigliamento alle infrastrutture, e del fratello Carlo, si è aperto un vuoto di leadership tenendo conto che sono 14 i componenti della seconda generazione Benetton e si fa avanti anche la terza. Solo Luciano ha già individuato da tempo il proprio successore (Alessandro che segue un percorso personale nella finanza), gli altri hanno diviso le quote in parti uguali tra i figli. Il crollo del ponte Morandi è stato l’evento che ha trasformato una crisi strisciante in una catastrofe proprio come la intende il matematico francese René Thom. Qual è il futuro dei Benetton?
Atlantia resta predominante per Edizione che l’anno scorso ha subito un vero e proprio collasso: una perdita di 320 milioni di euro, il primo risultato in rosso dal 2008 provocato dalla caduta di tutte le principali attività (autostrade, aeroporti, ristorazione, abbigliamento e tessile). Al più tardi il prossimo marzo Atlantia riceverà otto miliardi di euro dalla cessione di Aspi. Due miliardi serviranno per acquistare azioni proprie, ma i Benetton non parteciperanno in modo che la loro quota resti al 33 per cento; altri 2,75 miliardi serviranno a ridurre il debito, il resto a nuovi progetti che per quel che riguarda le autostrade in Europa e nel resto del mondo, soprattutto in Sud America, faranno perno sulla spagnola Abertis della quale Atlantia possiede il 50 per cento più una azione e il resto è in mano a Florentino Peres il costruttore che controlla anche il Real Madrid. Nel mirino ci saranno gli aeroporti ad alta vocazione turistica (un bel boccone quello di Atene che il governo greco dovrebbe mettere in vendita) e le infrastrutture per le telecomunicazioni e qui il pivot è senza dubbio Cellnex. L’abbigliamento è una spina nel fianco, Luciano a 86 anni non vuole mollare e annuncia nuovi progetti. Si vedrà. La vendita di Aspi è stata uno schiaffo cocente e secondo i fondi d’investimento azionisti di minoranza la società è stata sottovalutata: i Benetton hanno ceduto a una pressione ormai insopportabile, con lacerazioni interne che hanno portato alle dimissioni dal cda di Atlantia di Sabrina. A questo punto i loro affari si allontanano dall’Italia.
La successione in casa De Benedetti è stata drammatica con una rottura aperta tra il padre e i figli quando si è trattato di abbandonare l’editoria vendendo nel 2019 la Gedi (Repubblica, Espresso, giornali locali) a Elkann. La famiglia lacerata s’allontana dalla ribalta dove era rimasta per oltre quarant’anni. Il mesto autunno del patriarca Carlo si chiama Domani, il nuovo giornale da lui fondato. Il figlio Rodolfo gestisce la Cir concentrata in due settori, componenti automobilistiche con la Sogefi e sanità. Il fratello Marco sposato con Paola Ferrari, immancabile presenza di Rai Sport, fa affari con il fondo Carlyle, Edoardo è medico e si occupa delle cliniche. La Cir è un carapace che vale in Borsa solo 650 milioni di euro, una tartaruga lenta, ma è anche protetta?
Gli eredi Caprotti, invece, corrono come lepri. Esselunga, con un fatturato attorno a 8 miliardi di euro, è il quinto gruppo familiare italiano dopo Exor, Ferrero, Del Vecchio e Benetton. Prima della sua morte il 30 settembre 2016, Bernardo, il fondatore, ha raccomandato alla seconda moglie Giuliana e alla figlia Marina, di vendere (purché non a un francese né a un cinese, pensava in realtà all’americano Walmart). Invece Marina che viveva a Londra con il marito Francesco Moncada dei principi di Paternò, è tornata a Milano, ha liquidato i suoi due fratelli, Giuseppe e Violetta, figli di primo letto, pagando loro 915 milioni ciascuno, e si è fatta nominare presidente esecutivo. Tre anni dopo, esattamente il mese scorso, ha assunto anche la gestione, mostrando una gran fiducia in se stessa, visto che non ha mai avuto esperienze manageriali. La Esselunga ha accelerato l’espansione in Italia, soprattutto al centro-sud. Verrà quotata in Borsa? Mediobanca ha cominciato a lavorarci, ma una decisione non è stata presa. Bernardo aveva la vista lunga e anche per i Caprotti il futuro si giocherà al di là delle Alpi. La pandemia ha affilato i denti dei grandi investitori, dei fondi speculativi, delle gigantesche banche d’affari soprattutto americane, fusioni e acquisizioni si stanno moltiplicando, ci sono tanti soldi e altrettanti buoni affari in borsa e fuori. Guai a chi mostra il fianco scoperto, per il capitale non ci sono figli e figliastri.