Gli asili nido non bastano. Per la parità bisogna detassare le donne
Quello dei tassi occupazionali scandinavi è un falso mito. Agire sul fisco cambierebbe invece il potere contrattuale dei partner all'interno di una coppia
E’ iniziato ieri, in Italia, il summit del G20 dedicato alla parità di genere. E bene ha fatto il presidente del Consiglio Mario Draghi, giorni fa nel G20 Empower, a ricordare che “le disuguaglianze di genere nelle nostre società sono significative. Le donne sono capi di Stato o di governo in soli 22 paesi; solo il 21,9 per cento di tutti i ministri nel mondo sono donne. Siamo ancora lontani dal raggiungere una reale parità di genere”. Non riesco però a riconoscermi nella terapia da lui proposta per risolvere il problema: “Governi e imprese devono lavorare insieme per superare queste disparità: i primi rafforzando i servizi per l’infanzia, le imprese trovando il modo di adattare i propri luoghi di lavoro alle esigenze delle madri lavoratrici”. Pensare che un rafforzamento dei servizi per l’infanzia possa consentire alle donne di lavorare in condizioni di parità con gli uomini significa dare per scontato che siano le donne a doversi occupare dei figli. Lo stesso vale per l’idea che le imprese debbano adattare i posti di lavoro alle esigenze delle madri lavoratrici, come se fossero solo loro a doversi far carico della famiglia.
Ragionando in questo modo si possono forse curare i sintomi del problema delle differenze di genere, ma non riusciremo mai a eliminare la loro vera causa, ossia lo squilibrio dei compiti familiari tra donne e uomini, in particolare quelli di cura dei figli. Possiamo costruire asili in ogni strada, ma fino a che saranno le donne a dover lasciare il lavoro a metà pomeriggio per andare prendere i figli all’asilo, oppure a dover rimanere a casa quando i figli sono malati e all’asilo non ci possono andare, le donne riusciranno a lavorare un po’ di più ma non faranno carriera. Quindi, non avranno la stessa retribuzione degli uomini i quali invece potranno continuare a lavorare in modo più produttivo, scaricando sulle loro compagne i carichi familiari. Questo è peraltro quel che accade nei paesi Scandinavi, anche se è un fatto poco noto: i tassi di occupazione femminile sono altissimi in quei paesi, grazie ai servizi per l’infanzia, ma le donne hanno comunque obblighi familiari maggiori e sono quindi segregate nei settori e nei posti di lavoro che consentono loro di assolverli. Di conseguenza, anche in quei presunti paradisi della parità di genere, le donne in realtà guadagnano meno degli uomini e fanno meno carriera, dovendo lavorare doppiamente sia a casa sia nel mercato.
Se davvero ci sta a cuore la parità di genere, la strada da percorrere è quella di equilibrare i carichi familiari tra donne e uomini. Se in ogni coppia i carichi familiari fossero divisi equamente, le donne potrebbero essere produttive tanto quanto gli uomini, e le aziende non avrebbero più alcun motivo per pagare le donne meno degli uomini o per offrire solo agli uomini le migliori opportunità di carriera. Paradossalmente, quindi, i servizi all’infanzia e la conciliazione tra lavoro e famiglia, se pensati specificamente per le donne sono controproducenti come l’aspirina che ci da sollievo dal dolore e ritarda la ricerca della vera causa della malattia.
Tassare le donne meno degli uomini, riducendo per esse il cuneo fiscale, è invece un provvedimento che va al cuore del problema perché cambia il potere contrattuale dei partner all’interno di una coppia. Come da anni ho sostenuto insieme ad Alberto Alesina, se l’aliquota dell’imposta sul reddito delle donne fosse più bassa, quando i figli sono ammalati le donne potrebbero dire al loro partner: “Ora conviene che stia a casa tu, perché il nostro reddito familiare, al netto delle tasse, è più alto se lavoro e faccio carriera io.”
In altre parole, tassando le donne meno degli uomini, il governo creerebbe un incentivo economico a effettuare il cambiamento culturale necessario per arrivare alla parità di genere all’interno delle famiglie. A quel punto, la parità nei posti di lavoro seguirebbe naturalmente. E quando il cambiamento culturale fosse diventato permanente, anche le aliquote fiscali potrebbero tornare a essere uguali tra donne e uomini.
Si tratterebbe quindi di una “azione positiva”, legittimata dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione così come dal diritto europeo, in quanto destinata a correggere una discriminazione sistemica e quindi a cessare non appena il risultato potesse considerarsi raggiunto. La ricerca di Enrico Rubolino all’Università di Losanna, dimostra, con dati relativi alla riforma Fornero del 2012, che tassare meno le donne sarebbe una misura molto efficace per ridurre le disparità di genere nel nostro paese.
tra debito e crescita