Cdp prepara l'uscita da Webuild e inaugura una nuova stagione
Riportare il ruolo della Cassa alla sua missione originaria: è il metodo Draghi, per evitare una nuova Iri e puntare a un modello virtuoso da 100 milioni in due anni
La Cassa depositi e prestiti uscirà da Webuild, l’azienda di costruzioni che opera in Italia e all’estero la cui maggioranza è controllata al 44,99 per cento dal gruppo Salini. Cdp Equity ha una quota del 18,7 corrispondente in base all’attuale capitalizzazione di borsa a poco più di 370 milioni, rispetto ai 250 che sborsò ad agosto 2019 per consentire la nascita di quello che allora fu presentato come Progetto Italia, un campione nazionale di costruzioni e appalti. Si era a un anno dal crollo del ponte Morandi (ricostruito da Webuild e Leonardo) e alle battute finali del governo Lega-5 Stelle.
Molti allora vedevano in una ristatalizzazione tipo Italstat un modello da riproporre un po’ ovunque, da Tim ad Alitalia. Una nuova Iri. Era la filosofia grillina del largo impiego del denaro pubblico sposata al nazionalismo della Lega e poi, con il governo Conte 2, al residuo statalismo del Pd. Favorita dalla presenza al vertice della Cdp dell’ad Fabrizio Palermo, una delle prime nomine targata 5s. Da allora tutto sta cambiando nella cassaforte del Tesoro e nell’intervento governativo nell’economia. A fine maggio Palermo è stato rimpiazzato da Dario Scannapieco, ex vicepresidente della Banca europei degli investimenti, amico di Mario Draghi e già suo collega al Tesoro, abituato a investire quando necessario e per obiettivi mirati, e poi uscire. A fine giugno l’assemblea di Webuild, grazie anche ai risultati di bilancio e alle commesse ottenute all’estero, ha deliberato un aumento della retribuzione dell’ad Pietro Salini da 5,4 a 6,14 milioni, nonostante il voto contrario della Cdp, che invece nel consiglio d’amministrazione a marzo 2021, in era Palermo, si era espressa a favore.
E’ certo che il non aver tenuto conto delle obiezioni del nuovo vertice della Cassa abbia irritato Scannapieco e Draghi, abituato a memorizzare tutto. Anche perché proprio l’intervento pubblico e delle banche (Intesa, Unicredit e Bpm) aveva consentito a Salini la ricapitalizzazione per il salvataggio di Astaldi, secondo gruppo italiano con 2 miliardi di debiti, ma con un ricco portafoglio ordini. Ma nel disimpegno da Webuild c’è anche la prima attuazione della filosofia anticipata sul Foglio del 5 giugno: mettere i propri investimenti al servizio non di un’ideologia politica (statalizzare quel che si può) ma di una visione di mercato (uscirne quando si può).
Le ultime nomine di Draghi non sono tutte all’insegna del disimpegno pubblico: ovviamente né per Terna né per Ferrovie né per la Rai. Ma il governo si è affidato o a una selezione di head-hunters come per i vertici Rai (Carlo Fuortes e Marinella Soldi hanno curriculum hanno i curriculum migliori) e lasciando ai partiti la scelta delle poltrone sottostanti; ed a criteri di competenza consolidata come per Ferrovie e Cdp. In quest’ultimo caso c’è anche qualcosa di più: riportare il ruolo della Cassa alla sua missione originaria, cioè intervenire e breve-medio termine solo in operazioni con piani di risanamento possibile, anziché farne una nuova Iri, un fondo sovrano tricolore o il binario morto di imprese decotte.
Da questo punto di vista il disimpegno da Webuild – al momento non ancora formalizzato – può essere considerato un modello virtuoso: il Tesoro ci guadagna un centinaio di milioni in due anni, l’azienda è rimessa in carreggiata. Quanto a Tim la partita è più complessa poiché si tratta di definire le coordinate della rete unica, fare i bandi e poi lasciare campo agli operatori privati. Cioè non piantare bandierine nazionali anti-Vivendi ma di tutelare infrastrutture e sicurezza (il cloud nazionale va in questa direzione) e far fare ai privati la concorrenza sul servizio. Ma anche qui il percorso sembra avviato, anche per eliminare la presenza contemporanea di Cdp in Tim e Open Fiber. Quanto all’ex Alitalia – ieri è stato raggiunto l’accordo con Bruxelles per l’operatività della nuova Ita dal 15 ottobre con mano dipendenti e aerei, prestito pubblico subordinato a pareggio di bilancio nel 2023 – la Cdp ha deciso di tenersi fuori. Come fece nel 2013 quando Enrico Letta allora a palazzo Chigi convocò Giovanni Gorno Tempini, allora ad della Cdp, oggi confermato alla presidenza, e Franco Bassanini, allora presidente: ricevendone la minaccia di dimissioni.