Un manifestazione del sindacato pensionati della Cgil (foto d'archivio Ansa)

La soluzione per il post Quota 100 è semplice: non fare niente

Giuliano Cazzola

Alla fine dell'anno scade la misura voluta dal governo gialloverde. Più ci penso e più mi convinco che sarebbe un buon risultato lasciare che le cose si sistemino da sé

Le pensioni sono un cantiere sempre aperto. Ma quando un convoglio deraglia, la prima cosa da fare è rimetterlo sui binari. Il sistema pensionistico non ha sofferto soltanto per le misure introdotte dal governo gialloverde (quota 100 e il blocco dei requisiti del trattamento ordinario di anzianità), ma anche per le promesse di “superamento definito” (vade retro) della riforma Fornero che il Conte II, attraverso il ministro Nunzia Catalfo, ha fatto ai sindacati, tanto da indurli a presentare delle proposte addirittura fuori dal mercato e dalla storia. Si sono create, irresponsabilmente, aspettative che non possono essere esaudite, ma che creeranno non pochi problemi politici nella maggioranza e nel rapporto con le organizzazioni sindacali, dopo anni di dibattito in cui sono state totalmente rimosse le grandi questioni della finanza pubblica e degli effetti devastanti dell’invecchiamento e della denatalità sugli equilibri del sistema.

 

Più ci penso e più mi convinco che sarebbe un buon risultato lasciare che le cose si sistemino da sé. Mi spiego. Alla fine dell’anno viene a scadere Quota 100. Non c’è il rischio di un salto nel buio. Rimarrebbero due possibilità di andare in quiescenza per tutti quelli che sono nel sistema misto: la vecchiaia (67 anni e 20 di contributi); la vecchiaia anticipata (42 anni e 10 mesi e un anno in meno per le donne almeno fino a tutto il 2026). C’è tuttavia un fantasma che si aggira lungo la penisola: lo “scalone”. A parità di contribuzione (38 anni) chi poteva andare in pensione aggiungendo 62 anni di età dovrebbe attendere i 67 anni oppure raggiungere 42 anni e 10 mesi di servizio (un anno in meno per le donne) per varcare la soglia del trattamento anticipato a prescindere dall’età. Uno spazio equipollente a quota 100 potrebbe essere coperto, per molti casi di bisogno effettivo, dall’Ape sociale, una prestazione-ponte a carico dello stato che richiede 63 anni di età e, a seconda delle condizioni protette, 30 o 36 anni di contributi. E che consentirebbe di anticipare l’uscita dal lavoro fino a 43 mesi prima della maturazione del diritto alla pensione.

Non ignoro le possibili repliche. Il pacchetto Ape può essere utilizzato a fronte dei requisiti previsti (condizioni di disagio e di difficoltà personale o famigliare), ma non da coloro che compiono “una scelta di vita”. Ma anche per questi casi c’è una risposta adeguata: il ripristino dell’Ape volontaria. Nel 2020 sono pervenute all’Inps oltre 130mila domande per Quota 100, circa il 40% in meno rispetto al 2019. Il forte calo (anche di quelle accolte: da 193mila a 73mila) è presumibilmente una conseguenza del gran numero di adesioni nel 2019 da parte di lavoratori desiderosi di ritirarsi che avevano maturato i requisiti per l’anticipo pensionistico in anni precedenti. Infatti, la metà delle domande del 2019 è stata inoltrata da soggetti con età superiore ai 63 anni, il doppio rispetto al 2020. In generale, l’anzianità contributiva con cui i lavoratori hanno usufruito di Quota 100 è elevata, oltre il 65% degli interessati vanta 40-41 anni di servizio. In definitiva, i lavoratori prossimi al raggiungimento del requisito ordinario di pensionamento anticipato sembrano quelli più propensi a optare per Quota 100. In sostanza, a fronte di un anticipo che in teoria poteva essere di 4 anni e 8 mesi (nel caso degli uomini), i dati effettivi indicano che per i due terzi degli interessati l’anticipo si è ridotto a meno di due anni in virtù dell’elevata anzianità di servizio posseduta.

Di più su questi argomenti: