Il valore dei campioni
La nazionale è prima in Europa, ma al calcio italiano servono idee e capitali. I campioni ce li abbiamo, ora si tratta di fare gli stadi e riorganizzare le società. La strategia del pallone per rilanciare anche l’economia
Forse il Pnrr sarebbe stato approvato lo stesso all’unanimità come è accaduto martedì all’Ecofin. Forse Ursula von der Leyen avrebbe comunque scritto, e in italiano, che si tratta di un piano senza precedenti. Tutto era pronto e apparecchiato prima dei Campionati europei di calcio e la metà dei fondi, ben 191,5 miliardi di euro, era stata destinata all’Italia. Eppure non si sfugge all’impressione che la vittoria degli Azzurri abbia elettrizzato l’atmosfera a Bruxelles come a Parigi, a Berlino come a Madrid. “I campioni d’Europa siamo noi”, cantano le folle festanti. Ma non solo nel dare calci al pallone. Ci sono comparti dell’industria nei quali siamo già campioni; non si tratta della moda nella quale ce la battiamo con i francesi, né del turismo dove i “cugini transalpini” ci superano, bensì della manifattura: macchine per produrre macchine, robot, componenti automobilistiche, alimentare e così via. Qui una eventuale finale sarebbe la classica Italia-Germania. Ci sono nomi eccellenti come Ferrero, come Brembo, come Barilla (solo per citarne alcuni) e non dimentichiamo l’Enel al top in Europa, l’Eni che sgomita tra le sette sorelle in cerca di alternative a petrolio e gas. Tutto vero, tutto giusto, e va ricordato anche per non perdere la testa nell’ebbrezza sportivo-militaresca. Eppure ormai da molti decenni, da quando il modello italiano è diventato “piccolo e bello”, siamo i numero uno in tante nicchie di eccellenza, raramente là dove viene messa alla prova non solo la maestria del singolo, ma la tattica e la strategia collettiva. Questa volta, invece, l’Italia ha fatto sistema, come si direbbe con espressione in voga, nel più globale degli spettacoli: il football. Attenti, però, a facili entusiasmi: la nazionale è prima in Europa, il calcio italiano no. Non ancora.
Quel che è accaduto a Londra può davvero diventare metafora dell’Italia, della sua ripresa, del suo riscatto, senza venir smielati dalla retorica? Prima della finale la squadra dei tre leoni era la più cara al mondo, con 660 milioni di euro calcolando il valore degli undici titolari; due volte gli Azzurri. Ora che i ruggiti di Albione si sono trasformati in piagnucolosi e rancorosi miagolii, anche il mercato scende a patti con la realtà. Non tutti gli inglesi sono hooligan come i tifosi di domenica sera. Non tutti gli inglesi sono boriosi come lo scapigliato Boris, l’improbabile erede Harry e George il piccolo principe. Non tutti mancano di spirito sportivo come i calciatori della nazionale e i loro sostenitori appena usciti dal film su Cass Pennant, il leader della famigerata tifoseria del West Ham. Non tutti sono Brexiter né credono davvero di essere una grande potenza militare, economica e calcistica (meno che mai, visto lo scarno medagliere nazionale). Richard Foster che scrive sul Guardian, per esempio, già qualche tempo fa ha avuto il coraggio di dire la verità, cioè che i calciatori inglesi sono comunemente e giustamente ritenuti sopravvalutati.
Cominciamo a capire, allora, come si calcola il valore di un campione. Ci sono varie categorie: i super, divisi in stagionati ed emergenti (tipo Cristiano Ronaldo o Kylian Mbappé), i campioni semplici, i campioni in erba, gli ex capaci di tornare a galla, quelli che non s’arrendono (Zlatan Ibrahimovic o Gigi Buffon). Il mercato dei primi e degli ultimi è ristretto, poco concorrenziale, potremmo chiamarlo oligopolistico, in mano a mediatori potenti (uno per tutti Mino Raiola). Anche per gli altri il rapporto con i club passa attraverso società specializzate però la platea è ben più vasta. La nazionale è una gran vetrina, non l’unica, ma molto prestigiosa, tuttavia proprio come in un qualsiasi negozio mettersi in mostra non vuol dire fare il prezzo. Per questo contano i parametri (uno dei vocaboli più usati nel calciomercato): età, caratteristiche fisiche, tecnica, provenienza calcistica, nazionale, etnica, in tutto saranno una ventina. Un giovane talento africano è un buon affare, lo si compra per poco e può fruttare una enorme “plusvalenza” (altra parola chiave). Ottime occasioni di trovano anche in Sud America e nell’est europeo. Resta nella storia l’Udinese che ha comperato il portiere sloveno Samir Handanovic (uno dei migliori della sua generazione) per 40 mila euro e nel 2012 lo ha venduto all’Inter incassando 12 milioni.
Lionel Messi, “la pulce”, è sempre Messi anche se con l’Argentina ha vinto solo quest’ultima Coppa America. Cristiano Ronaldo resta se stesso nonostante abbia deluso. Mbappé ha fatto una figura barbina e potrà avere qualche contraccolpo – il Real Madrid che lo voleva non è più disposto a far follie per lui – tuttavia non abbandonerà il top della classifica. Romelu Lukaku con il Belgio ha perso la partita con l’Italia, non lo smalto. Meno scontato è cosa accadrà ai campioni inglesi dopo la débacle di Wembley: il tuffatore Raheem Sterling o l’ “uragano” Harry Kane non scenderanno dal predellino del loro sovrapprezzo, incerta invece la sorte dei giovani talenti bruciati sul dischetto del rigore. Saranno rivalutati gli italiani che spesso venivano considerati di levatura inferiore, mentre a quota cento milioni è arrivato Federico Chiesa al pari di Gigio Donnarumma, già ben lustrato e oleato da Raiola, che è riuscito a far ottenere un buon contratto in una oscura squadra turca anche a Balotelli, il Supermario che nel 2012 con due fantastici gol sconfisse la Germania agli Europei e divideva le copertine con l’altro Supermario, che nel frattempo stava salvando l’euro con il suo whatever it takes. Un grande talento acerbo e sprecato il primo, un talento maturo e sicuro Draghi che trova conferma anche come capo del governo.
Smaltita la sbornia nazionale, torna il mercato che valuta quantità e qualità, non solo il risultato, ma anche il merito. E allora come la mettiamo con i super stipendi: sono davvero tutti meritati e le aziende sono in grado di pagare? La società di consulenza A.T. Kearney qualche anno fa paragonava i club a vascelli incaricati solo di trasportare (gratis quando non in perdita) i soldi del calcio ai giocatori. Se a giudicare fosse soltanto il mercato, i valori sarebbero diversi e la polemica del tutto inutile, invece le cose sono molto più complicate, a cominciare dall’Italia dove stato e mercato sono avvinti in un abbraccio che sembra inestricabile. I cori di giubilo non si sono ancora spenti e i presidenti hanno già cominciato a batter cassa, chiedendo sostegni al governo, attingendo anche al Pnrr. In vent’anni, calcola la società di consulenza Pwc nell’ultimo rapporto realizzato per la Federazione italiana gioco calcio, il fatturato complessivo delle 54 principali leghe professionistiche europee è passato da 2,8 a 20,1 miliardi di euro. La Premier League britannica e la Bundesliga tedesca sono i campionati più redditizi; la Serie A vuole raggiungerli, ma non ci riesce e forse non ce la farà più se, con l’aiuto della pandemia, il bengodi volge al termine.
Gli effetti del calciomercato sui conti non è lineare: tra gli ammortamenti che permettono di spalmare il costo per l’acquisto di un giocatore lungo tutti gli anni del suo contratto e le plusvalenze (spesso irrealistiche) messe a bilancio nelle operazioni di scambio di calciatori, il conto economico è un labirinto in cui è facile perdersi. Il flusso di cassa, cioè la differenza tra entrate e uscite monetarie, e il livello di indebitamento sono indicatori di sostenibilità economica migliori dell’utile. Secondo la 24esima edizione della Football Money League, pubblicata dallo Sports Business Group di Deloitte, i top 20 club mondiali perderanno un fatturato superiore a 2 miliardi di euro entro la fine di questa stagione. I ricavi sono in calo del 12 per cento, una contrazione di 1,1 miliardi di euro dovuta soprattutto alla una riduzione dei proventi dai diritti televisivi pari a 937 milioni (-23 per cento), un crollo di 257 milioni di euro (-17 per cento) dei ricavi da stadio, solo parzialmente compensato da una crescita dei ricavi commerciali di 105 milioni di euro (+3 per cento). L’effetto del Covid-19 è stato pesante, ma è un’illusione credere che tutto tornerà come prima. Tra le prime venti ci sono solo due squadre italiane, la Juventus decima, il Napoli al numero 19. In cima restano Barcelona, Real Madrid, Bayern, con redditi che vanno dai 715 ai 634 milioni di euro. Oltre il mezzo miliardo tre club inglesi, Manchester United, Liverpool, Manchester City, poi il Paris Saint Germain. Dunque la nazionale ha vinto gli europei, il calcio italiano resta in seconda fila.
Il Sole 24 Ore ha studiato i bilanci 2018-2019 (quindi pre-pandemia) della A mostrando come, tolte Atalanta e Napoli, che avevano fatto rispettivamente 24 milioni e 29 milioni di utile, le squadre più forti erano tutte in rosso: 146 milioni di perdite per il Milan, 48,4 per l’Inter, 39,9 per la Juventus, 24,3 per la Roma e 13,2 per la Lazio. Il coronavirus, quindi, è un’aggravante, non la causa della crisi. La voce di entrate che davvero separa la Serie A riguarda i diritti tv: per il calcio inglese valgono 3,3 miliardi all’anno, per quello spagnolo 2 miliardi e per quello italiano 1,3 miliardi, che è anche meno degli 1,4 della Bundesliga. Il margine per aumentare questo tipo di incasso, che quasi dovunque resta la principale fonte di finanziamento del calcio, è però molto limitato. Occorrerebbe che il nostro principale campionato diventasse più attraente per i tifosi stranieri. La vittoria agli europei potrà aiutare, ma il fossato da colmare è enorme.
E qui sorge la questione degli stadi, quelli italiani sono vecchi in media di 60 anni e generano introiti scarsi, appena 300 milioni di euro. Nei principali paesi europei sono stati realizzati 160 stadi (Germania, Polonia, Russia) con investimenti per 20 miliardi di euro negli ultimi dieci anni. Il caso della Roma è da psicoanalista. Bene, ma allora come la mettiamo con la Juventus: lo stadio c’è, ci sono anche il marchio e il merchandising, eppure i conti vanno male. Nel gennaio 2020 i soci hanno aumentato il capitale di 300 milioni di euro; Exor, la finanziaria degli Agnelli che controlla il 63,8 per cento del club, ha messo i suoi 191,2 milioni. Cristiano Ronaldo è stato pagato 115 milioni e ogni anno grava sui conti per 86 milioni senza per questo fare aumentare gli introiti a sufficienza. Pesa l’eliminazione dalla Champions League, ma non solo. In cinque anni la Juve è riuscita ad accrescere i ricavi da 348 a 621 milioni di euro (+78 per cento) lasciando salire nel frattempo anche i costi operativi fino a 458 milioni (+73,5 per cento) e i debiti arrivati a 463 milioni (+145 per cento). Se si guarda il cash flow dell’attività operativa (cioè il banale conto costi-benefici) e di quella di investimento (che nel calcio significa in gran parte acquisti e cessioni di giocatori), la Vecchia Signora ha chiuso in rosso otto degli ultimi dieci bilanci, con un flusso di cassa negativo per 526 milioni in un decennio, di cui più di 280 soltanto negli ultimi due bilanci. La radiografia delle altre squadre maggiori non è molto diversa. Molte piccole società, invece, si sono distinte per quel fair play finanziario abbandonato dalle grandi. L’Atalanta, per esempio, ha ancora i conti in ordine e ha piazzato il maggior numero di suoi calciatori nelle varie squadre nazionali presenti agli europei. Quanto valgono i campioni, allora, dipende anche da come viene gestito il club.
Il football italiano può diventare più sano economicamente e più competitivo; occorrono le idee e i capitali. Chiamiamo gli sceicchi, gli oligarchi, i nuovi mandarini cinesi? O ci vuole il mercato i cui protagonisti in tutto il mondo sono oggi i fondi di investimento? Chi ha conosciuto il calcio dei vecchi patron, un po’ tifosi un po’ impresari, i Ferlaino o i Moratti, i Sensi o i Berlusconi, spera che ne arrivino sempre di nuovi, pronti a rischiare per primeggiare. Oggi ne esistono ancora: De Laurentiis, Cairo, Preziosi, gli Squinzi, senza dimenticare gli eredi Agnelli. E ci sono anche stranieri disposti a venire in Italia: il californiano Dan Friedkin alla Roma o Rocco Commisso il newyorchese nato a Gioiosa Jonica, alla Fiorentina. Ma il modello Borgorosso Football Club non regge.
Per compiere un salto di qualità l’Italia anche nel calcio deve scegliere la strada del nuovo capitalismo, della quarta rivoluzione tecnologica e finanziaria. Una caratteristica essenziale del nuovo paradigma è la sua diffusione o, come lo chiamano alcuni, il capitalismo di massa (Bill Clinton negli anni Novanta lo aveva definito capitalismo popolare) che mobilita i risparmi della classe media. Il Milan in mano al fondo Elliott s’è messo su questa strada, l’Inter è destinata a seguirlo vista la crisi del gruppo cinese Suning. Il big boss Zhang Jindong si è dimesso l’11 luglio lasciando le patate bollenti e i creditori affamati al figlio Kangyang detto Steven. Ma la famiglia Zhang ha perso il controllo dell’impresa che vende al dettaglio elettrodomestici. Per salvarla si è formato un consorzio del quale fanno parte Alibaba, due grandi aziende forti nell’elettronica di consumo, come Haier e Xiaomi, ma soprattutto holding finanziarie di stato. Dunque, la società vincitrice dell’ultimo scudetto farà capo in ultima istanza al Partito comunista cinese? Con buona pace di Beppe Grillo e dei novelli Marco Polo, solo il vento dell’ovest non quello dell’est potrà gonfiare le vele del calcio italiano. Carlo Cottarelli ha lanciato l’idea di un azionariato popolare per l’Inter e molto si è discusso sul modello Bayern, la società meglio gestita in Europa. Il 73 per cento delle azioni in mano alla casa madre è diviso tra i tifosi, il resto appartiene in parti uguali alla Adidas che fornisce le attrezzature tecniche, all’Audi e all’Allianz che dà il nome anche allo stadio di Monaco. Insomma, si tratta di un sistema misto favorito dalla legislazione tedesca che impedisce a un singolo azionista di possedere più del 50 per cento (quota che scende quasi ovunque al 30 per cento) in un club della Bundesliga. Campioni nazionali, campioni popolari, campioni globali. E’ lo schema a tre punte, può valere anche per l’economia e, perché no, per la politica.