“Dall'Ue richieste insostenibili”. Così l'industria italiana dell'auto paga il costo della transizione
Circa 700 persone coinvolte dai licenziamenti di Gianetti Ruote, Gkn e Timken. "Le proposte della Commissione sono destinate a produrre impatti devastanti sul tessuto sociale ed economico europeo e italiano", ci dice il presidente di Anfia Paolo Scudieri
C’è un filo che lega i licenziamenti annunciati nei giorni scorsi da Gianetti Ruote, Gkn e Timken. Tutte e tre sono imprese che producono componenti per il settore automotive: ruote in acciaio e cuscinetti, supporti e ingranaggi di vario tipo, essenziali anche per le auto elettriche e ibride. Eppure la ristrutturazione profonda che l’industria dell’auto si trova ad affrontare impatta anche su queste produzioni, soprattutto in un paese che ha trascurato la propria politica industriale. La pensa così Paolo Scudieri, presidente di Anfia, l’associazione nazionale che rappresenta la filiera dell’industria automotive. “Siamo di fronte a un problema più volte denunciato, già in tempi non sospetti, di un possibile abbandono dell’Italia da parte delle multinazionali estere in assenza di un piano nazionale di politica industriale a medio-lungo termine per accompagnare la filiera in questa transizione tecnologica”, dice al Foglio. Il momento è tra i più delicati per il settore.
Già prima della pandemia il mercato è stato molto influenzato dalle politiche ostili a diesel e benzina adottate a diversi livelli, non solo in Europa ma anche nei singoli stati e addirittura dai singoli comuni. Poi con l’emergenza sanitaria anche il mercato mondiale dell’auto ha subito una battuta d’arresto. Oggi la ripresa deve conciliarsi con i nuovi target proposti dalla Commissione Ue con il pacchetto Fit for 55: ridurre le emissioni di CO2 delle auto del 55 per cento nel 2030 e smettere di vendere motori endotermici nel 2035. “Un simile sforzo – dice Scudieri – non è sostenibile” e anzi “è destinato a produrre impatti devastanti sul tessuto sociale ed economico europeo e italiano: è essenziale che le istituzioni italiane rappresentino con determinazione le istanze di uno dei settori più importanti del paese nell’iter legislativo che seguirà la proposta europea nei prossimi mesi”.
Il governo italiano sembra aver colto il problema, ma non è ancora chiara la posizione che sosterrà a Bruxelles. Ha speso parole preoccupate il ministro Giancarlo Giorgetti, che al Mise ha costituito dal suo insediamento un tavolo sull’automotive, ma anche il ministro della Transizione ecologica, Stefano Cingolani, è consapevole di cosa mette in gioco l’Italia in questa partita. “A tecnologia costante, con l’assetto costante, la Motor valley chiude”, ha ammesso pochi giorni fa riferendosi al distretto industriale dell’Emilia-Romagna, dove hanno sede Ferrari, Lamborghini, Maserati, McLaren e altri importanti marchi motociclistici.
La filiera automobilistica italiana, tuttavia, non è fatta solo da big. La componentistica ha un suo peso specifico, con un fatturato complessivo di circa 50 miliardi di euro che deriva per circa la metà dall’export, dicono i dati Anfia. Poco meno del 20 per cento dei prodotti che esportiamo sono motori, ma il grosso sono le parti meccaniche (quasi il 70 per cento del totale esportato nel 2020). “Sicuramente la transizione tecnologica in atto avrà una ripercussione anche sui flussi commerciali, motivo in più per adoperarsi nel gestirla a favore della nostra manifattura”, continua Scudieri, “anche tenendo presente che le esportazioni del settore componenti rappresentano oltre il quattro per cento di tutto l’export italiano”.
Prima che si accenda un’altra crisi industriale – i sindacati sono in allarme per un centinaio di interinali della Vitesco Technologies, che produce componenti per motori a combustione ed è impegnata in un percorso di riconversione verso l’elettrico – alla filiera serve un piano. Scudieri mette in ordine i punti su cui intervenire: “Il capitale umano, adeguando l’offerta e incentivando fiscalmente la formazione; l’aggregazione di imprese e Pmi; la riconversione produttiva e l’attrazione di investimenti sul territorio, soprattutto in ricerca e sviluppo”; la dotazione infrastrutturale per rendere effettivamente fruibili da parte dei consumatori le nuove tecnologie”. Tutto questo, aggiunge, senza tralasciare la dotazione infrastrutturale per i nuovi motori che verranno. Ricominciare, insomma, dal costruire una nuova visione industriale. Anche per riuscire a rappresentare con chiarezza i propri interessi nei tavoli europei. “Le aziende non possono essere lasciate sole”, conclude Scudieri. “I governi devono lavorare e cooperare per preservare e sviluppare ulteriormente la competitività del comparto”.