L'altro modello europeo
Crescita, protezione, innovazione. La pandemia ha messo a confronto due metodi economici. E c’è una sorpresa: l’Europa non è più un vagone, ma è una locomotiva. Quale sarà la direzione giusta? Girotondo
Con “Washington consensus” si intende una politica economica di libero mercato e apertura agli scambi internazionali accompagnata da una politica fiscale di responsabilità e di contenimento di deficit e debito. Questa definizione ampia nasceva da studi, politiche, programmi avanzati nel corso degli anni dalle istituzioni di Bretton Woods, FMI e Banca Mondiale, basate appunto a Washington. Dato per morto a più riprese, in realtà quel quadro concettuale ha continuato a informare la politica economica dei nostri Paesi. Oggi, in diversi ritengono che la pandemia sarà il vero killer del “Washington consesus”. Non è detto sia cosi. Questo Girotondo (costruito insieme all’Associazione “M&M – Idee per un Paese migliore” e nato dallo spunto offerto dal direttore del Foglio in un articolo pubblicato il 19 giugno sugli economisti alle prese con il pragmatismo dell’agenda Draghi) prova a testare l’emergere di una sua “variante”: il “Washington / Brussels consensus”. Crescenti difficoltà delle classi medie, montata di populismi e movimenti di protesta, nuove rivendicazioni di equità, eccessi delle multinazionali e sfide planetarie quali pandemie e cambiamento climatico stanno fortemente influenzando il pensiero sulla politica economica.
Per riassumere in una frase, il centro del nuovo consensus sarebbe il rapporto tra generazioni. Garantire equità nelle condizioni di partenza e intervenire per assicurare la mobilità sociale, superare nelle politiche di welfare la dicotomia tra “millenials” con poche sicurezze e “boomers” molto protetti, comprendere l’irrevocabilità delle conseguenze sul pianeta delle scelte dell’oggi, agire subito su problemi che appaiono lontano nel tempo: sono questi i driver del nuovo paradigma. Mentre finora questo approccio poteva sembrare una sperimentazione intellettuale di alcuni economisti, oggi sta divenendo progressivamente un esercizio concreto di politica economica, dall’Amministrazione Biden al Next Genertion EU dell’Unione Europea. Come si coniuga tutto ciò con un’economia di mercato libera, dinamica e innovativa, basata sul valore dell’impresa e del lavoro? Parliamone.
La strada non retorica per un nuovo bilancio europeo
A fine novembre 2008 la Fed iniziò il suo primo programma straordinario di acquisti di attività finanziare (QE) per far fronte alla crisi del credito esplosa nel settembre di quell’anno con il fallimento di Lehman Brothers. Il QE della BCE arrivò oltre sei anni dopo, da gennaio 2015. Nel giugno 2012, nel pieno della crisi del debito europea poi risolta un mese dopo dal ‘whatever it takes’ di Draghi, la cancelliera Merkel dichiarò anche che l’Europa non avrebbe avuto un debito comune “finchè sono viva”. Corsi e ricorsi storici, tra il 15 e il 18 marzo 2020 la Fed americana annuncia un nuovo programma di QE per contrastare gli effetti economici della pandemia, del valore complessivo di oltre mille miliardi di dollari. Ma questa volta, poco dopo la mezzanotte del 19 marzo, un tweet del Presidente Christine Lagarde annuncia un analogo piano da parte della BCE, di dimensione simile. Inoltre, con Angela Merkel ancora Cancelliere, in questi giorni celebriamo le prime emissioni di debito europeo per finanziare i Recovery plan nazionali, per un totale che arriverà ad oltre 750 miliardi di euro (aggiungendo ai fondi Recovery quelli del meccanismo di disoccupazione europeo SURE). Possiamo forse declinare in questo senso l’idea di un “Washington-Brussels consensus” per quanto riguarda la politica economica europea.
Cioè uno schema in cui Europa e Stati Uniti prendono atto del fatto che la natura dei problemi che occorre affrontare (pandemia, cambiamento climatico, progresso tecnologico, demografia e immigrazione) non solo è di natura simmetrica ma, diversamente dal passato, nasce da quelle che una volta venivano considerate “esternalità” rispetto al mercato. Dunque la risposta a queste sfide non può passare solo attraverso il mercato ma richiede, in linea con lo spirito dei tempi, un maggiore coordinamento tra le funzioni obiettivo di Governi e imprese. In effetti troviamo traccia di questo nei PNRR nazionali recentemente approvati dalla Commissione europea: Germania, Francia, Italia e Spagna hanno impostato piani tra di loro simili, con investimenti pubblici previsti non solo su digitale e transizione ambientale (come da richieste della Commissione), ma anche nei campi della salute, dell’istruzione e della coesione sociale, e con ampio spazio alla collaborazione tra risorse pubbliche e investimenti privati negli spazi di azione aperti dalle riforme che accompagnano le linee di azione previste. Si è determinata nelle scelte dei governi nazionali una domanda di “beni pubblici” europei dal forte carattere intergenerazionale: salute, protezione ambientale, welfare e protezione sociale, etc.
Essa potrebbe influenzare nei prossimi mesi l’articolazione del dibattito di politica economica nel Vecchio Continente. In particolare oltre alla riforma delle regole di finanza pubblica, che probabilmente porterà solo a qualche limatura di maniera visto che nell’attuale quadro di flessibilità del Patto di Crescita e Stabilità si possono politicamente ricomprendere quasi tutte le posizioni ed esigenze degli Stati membri, sarebbe importante mettere sul tavolo la creazione di una vera e propria “capacità fiscale” europea. Quest’ultima a è cosa diversa dal rendere “permanente” il meccanismo del Recovery, che ha specifici meccanismi di redistribuzione figli del contesto pandemico. Si tratterebbe piuttosto di una dotazione permanente di bilancio a carico delle Istituzioni comunitarie, finanziata dalle nuove Risorse Proprie (carbon tax, multinational tax) che garantiscono l’emissione di debito comune, e che avrebbe come scopo quello di contribuire alla creazione di quei beni pubblici europei che oggi sembrano essere uno degli elementi portanti del nuovo “consensus” che si sta creando tra governi, cittadini e imprese nello scenario post-pandemico.
Carlo Altomonte,
Università Bocconi
Tre punti per un’agenda Draghi-Macron
La pandemia ha determinato un aumento sincrono e senza precedenti dei livelli di deficit e di debito negli Stati Uniti, in Europa e naturalmente anche in Italia. Mentre il deficit, con il venire meno delle misure emergenziali, e’ destinato progressivamente a rientrare, difficilmente il debito diminuirà in maniera apprezzabile nei prossimi anni. E’ pensiero diffuso, tra economisti e sui mercati, che misure di austerità potrebbero solo limare i livelli di debito, al margine. Negli ultimi anni – complici gli eccessi della grande crisi finanziaria, il disagio crescente delle classi medie, le sfide della demografia e del cambiamento climatico – sono maturate tendenze che pongono con urgenza temi sociali, di eguaglianza, solidarietà e sostenibilità. Questo pensiero pare particolarmente fruttuoso e costruttivo quando mette al centro dell’azione politica l’equità tra generazioni, in un momento in cui le scelte dell’oggi condizionano irrevocabilmente la vita futura.
Questo approccio trova spazio crescente e in ambiti sempre più ampi. I veri “pathfinder” di politica economica, le organizzazioni internazionali, Fondo Monetario, OCSE, e i grandi think tank economiche sono sempre più attenti a questi temi. Le stesse banche centrali ne parlano apertamente e mettono a disposizione della lotta al cambiamento climatico i propri strumenti di supervisione del sistema finanziario e perfino di politica monetaria. Come ricordava in questi giorni Martin Wolf sul FT, i banchieri centrali parlano anche sempre più frequentemente del problema delle ineguaglianze.
Presenta questo angolo intergenerazionale il recente rapporto sulle priorità per il paese commissionato dal Presidente francese Macron e redatto da un gruppo di economisti, coordinati da Olivier Blanchard e Jean Tirole. Parimenti in Italia, il presidente del Consiglio e uomini politici di primo piano hanno sottolineato la necessità e l’urgenza di rafforzare e ampliare le opportunità per i più giovani, in un Paese con demografia anemica, poco dinamico socialmente e con forti sperequazioni tra generazioni. Grazie anche allo shock pandemico, dal pensiero si sta passando all’azione: questo nuovo paradigma informa oggi misure concrete in Europa, per esempio attraverso Next Generation EU, e negli Stati Uniti, nella politica economica dell’Amministrazione Biden. E’ cosi nato il “Washington / Brussels consensus”. Come leggere il tema del debito e della politica fiscale più in generale attraverso la lente di questo nuovo quadro concettuale di politica economica?
Tradizionalmente un debito eccessivo era proprio visto come un’ipoteca sulle generazioni future. Oggi le esigenze delle politiche sociali e di decarbonizzazione chiedono nuova spesa. Una parte delle risorse potranno essere recuperate da nuovi introiti: i) l’imposizione di una tassa carbone efficace potrebbe parzialmente offset costi della lotta al cambiamento climatico; ii) certi eccessi nell’erosione fiscale e nel profit shifting hanno generato una reazione dei governi che, grazie anche alla Presidenza italiana del G20, dovrebbero arrivare ad un accordo globale sulla tassazione delle multinazionali; iii) contigua al nuovo “consensus” è l’idea che ci debba essere un riequilibrio nella tassazione tra più e meno abbienti e che si debbano/possano aumentare le imposte sul patrimonio o sulle successioni. Vi sono proposte in questo senso negli Stati Uniti, in Francia e in Italia, dove proprio in questi giorni si è concluso l’importante lavoro delle due Commissioni Finanze del Parlamento sulla riforma fiscale. Tuttavia, secondo molti è illusorio pensare che queste nuove risorse, ammesso che si riesca politicamente a recuperarle, siano sufficienti a coprire i costi di una nuova politica economica. Il tipo di difficoltà che si incontrano è ben evidente nelle misure di copertura, molto all’“italiana”, del Piano americano per le infrastrutture. Sembra quindi che questo nuovo “consensus” di politica economica ci spinga a convivere con alti livelli di debito.
Forse qui rilevano alcune distinzioni. Sicuramente rileva il concetto di garantire la sostenibilità del debito, data dal rapporto tra crescita e tassi di interesse, su cui si sono esercitati diversi economisti e policy experts del nuovo paradigma. Sicuramente rileva la distinzione tra “debito buono” e “debito cattivo”, che indica la necessità di politiche espansive, ma politiche ben disegnate. Quindi, crescita e adeguato policy design sembrano essere gli strumenti con cui assicurare la messa in pratica del nuovo “consensus”.
Fabrizio Pagani,
Global Head of Economics Muzinich & Co., già Direttore OCSE e Sherpa G20 – Debito e politica fiscale
Un nuovo fisco passa dal fattore famiglia
L’orizzonte dell’equità – e in particolare quella intergenerazionale – sarà la prospettiva della nuova politica economica? Come si declinerà in concreto questo emergente “Washington / Brussels consensus” nel garantire parità nelle condizioni di partenza e nello stimolare politiche sociali moderne? La domanda è tutt’altro che retorica in quanto l’equità intergenerazionale racchiude in se’ piu’ sfide per il futuro: quella demografica, della sostenibilità ambientale e della diversa ripartizione nell’accesso ai beni essenziali tra Nord e Sud del mondo. Nasce immediatamente un secondo interrogativo: le politiche sociali, che accompagneranno tale nuova politica economica, continueranno ancora ad essere politiche ancillari e riparative? Oppure si affermerà la volontà di dare forma e forza ad un “terzo pilastro”– la comunità – finora dimenticato dai mercati e dallo Stato?
Per dare un volto a quella che si può chiamare “transizione sociale” evocherò due temi:la questione generazionale e quella dell’economia sociale. Non a caso la UE ha chiamato il suo programma di investimenti per uscire dalla crisi pandemica, Next Generation Eu. E non a caso, il PNRR italiano ha recepito questa priorità al fine di ridurre il gap intergenerazionale. In tal senso, ben ha fatto il governo Draghi a varare l’assegno universale per i figli come politica strutturale di sostegno alla natalità e alle responsabilità genitoriali. Ma quando si metterà mano alla riforma fiscale si dovrà altresì introdurre il “fattore famiglia” (qualcosa di analogo al quoziente familiare francese) per ripartire in modo meno diseguale il carico fiscale, oggi fortemente sfavorevole alle famiglie con figli; tanto che la povertà assoluta nell’ultimo decennio si è concentrata sui minori. Il secondo gap italiano si rinviene nell’enorme numero di giovani Neet. Il PNRR sceglie di investire su politiche di formazione, sviluppo delle competenze e di inserimento lavorativo attraverso investimenti sull’apprendistato formativo (600 milioni), gli ITS (1,5 miliardi), il Servizio civile (650 milioni).
Queste tre leve possono consentire di chiamare in campo una generazione lasciata troppo tempo in panchina. L’altra sfida è quella dell’economia sociale. Il Commissario Schmit ha in programma il varo entro l’anno di un “Action plan per l’economia sociale”, per farne una componente essenziale di una libera economia di mercato. Con la fondamentale differenza che, oltre a produrre valore economico, i soggetti dell’economia sociale ambiscono a generare anche coesione, inclusione, democrazia economica e innovazione sociale. Per costruire un adeguato e forte ecosistema per lo sviluppo delle organizzazioni dell’economia sociale, sono necessarie, a livello europeo, due scelte. Innanzitutto, la definizione di un perimetro concettuale che consenta di arrivare in tempi ravvicinati ad una nozione giuridica comune. In secondo luogo, serve individuare un sistema condiviso di misurazione dell’impatto sociale degli investimenti. Finché i valori di coesione, inclusione, partecipazione comunitaria non sono chiaramente identificabili – e dunque misurabili – continueranno a restare in una sfera di marginalità o di irrilevanza. Ma,questa funzione di produzione di valore aggiunto sociale va riconosciuta e premiata. Dunque il lancio del Piano d’azione dell’economia sociale europea ci dice che il tempo è maturo per scelte coraggiose e aperte al futuro.
Luigi Bobba,
Presidente di Terzjus – Politiche sociali e transizione sociale
Non c’è Europa senza un’altra concorrenza
Quale può essere il ruolo della politica di concorrenza europea nel quadro dei nuovi obiettivi di politica economica del “Washington-Brussels consensus”? Finora la politica di concorrenza della UE ha svolto un ruolo essenziale nel funzionamento del mercato interno con l’obiettivo esplicito di garantire a tutti in Europa beni e servizi di qualità al minor prezzo possibile, promuovendo l’attività di impresa e l’efficienza, aumentando l’offerta a disposizione dei consumatori. Negli ultimi diciotto mesi, tuttavia, si sono fatti strada nuovi obiettivi e nuove considerazioni, che sembrano ben inserirsi nell’emergente nuovo quadro concettuale di politica economica.
Con l’European Green Deal la Commissione ha avviato un programma che pone la politica di concorrenza a fianco delle varie azioni proposte per la transizione energetica e climatica, nella consapevolezza che essa svolge un ruolo solo complementare a questo fine a regolazione e politica fiscale. La libera concorrenza incoraggia le imprese a produrre al minor costo, a investire in modo efficiente, a innovare e ad adottare tecnologie più efficienti dal punto di vista energetico. La pressione della concorrenza è un incentivo a utilizzare in modo efficiente le risorse scarse e la sua azione integra le politiche e le normative ambientali e climatiche volte a internalizzare i costi ambientali. Sarà certamente un bilanciamento non facile tra l’uso efficiente delle risorse e l’esigenza di non penalizzare la crescita economica. A questo gia’ difficile bilanciamento, si deve aggiungere la rinnovata attenzione alle esigenze sociali e di equità di tutti, in particolare delle nuove generazioni. Il cd. meccanismo per una transizione giusta, che accompagna l’European Green Deal, dovrebbe sostenere gli investimenti di cui necessitano i lavoratori e le comunità che dipendono dalla catena del valore dei combustibili fossili. Quale strumentario può utilizzare l’Antitrust europeo?
Più immediato quello del settore “aiuti di stato”. Tradizionalmente utilizzati per rimediare ai fallimenti del mercato, possono supportare politiche specifiche finalizzate all’innovazione, alla solidarietà, alla transizione energetica, garantendo un’allocazione correttamente finalizzata dei fondi pubblici in questa prospettiva. Devono avere un effetto di incentivazione, per modificare il comportamento dell’impresa e convincerla a intraprendere attività che senza l’aiuto non svolgerebbe. Sul piano strettamente antitrust, invece, già le norme attuali possono contribuire al conseguimento degli obiettivi del Green Deal sanzionando comportamenti anticoncorrenziali come l’introduzione di restrizioni allo sviluppo o all’utilizzo di tecnologie pulite o la preclusione all’accesso a infrastrutture essenziali, fondamentali per lo sfruttamento delle fonti di energia rinnovabile. Più in generale, esse possono permettere lo sviluppo di prodotti o mercati nuovi o migliorare le condizioni di fornitura, evitando inutili restrizioni che ostacolano una sana concorrenza e garantendo condizioni di accesso trasparenti e non discriminatorie. Gli accordi che perseguono obiettivi di sostenibilità possono, inoltre, beneficiare dei regolamenti di esenzione per categoria della Commissione, purché non contengano restrizioni fondamentali e le quote di mercato delle parti non superino determinate soglie.
Stefania Bariatti,
Università di Milano Statale, avvocato Antitrust e concorrenza
Maturità e leadership tecnologiche: una nuova agenda
Le crescenti evidenze dei rischi climatici e delle loro implicazioni politiche, economiche e sociali hanno finalmente conferito al dibattito e alle azioni sulla sostenibilità un orizzonte più prossimo e concreto. In questo senso, il nuovo, emergente, quadro concettuale di politica economica riconosce nell’elemento della sostenibilità e della lotta al cambiamento climatico uno dei principali caratteri. I grandi protagonisti internazionali, consapevoli della interdipendenza, si dotano di piani di azione alla ricerca di una ardua coerenza con le priorità e i vincoli delle singole agende. La Cina, paese detentore di leadership tecnologiche e protagonista di grandi contraddizioni ambientali, dovrà seguire con rinnovata attenzione lo sviluppo del “Washington / Brussels consensus”, in cui si colloca l’agenda sostenibile di Europa e Stati Uniti.
Qui si decreteranno nuovi equilibri competitivi geopolitici legati al controllo dei fattori chiave di successo della transizione. Più di quello che oggi si possa immaginare, i prossimi anni saranno cruciali nella capacità che gli interlocutori chiave avranno di innescare conseguenze concrete e durature, una scelta auspicabile ma dagli esiti tutt’altro che scontati. Eppure queste circostanze non hanno generato risultati concreti apprezzabili in termini emissivi, il rischio potenziale cresce e a breve si chiuderanno alcune opzioni per la sua mitigazione, che potrebbe risultare tardiva o economicamente insostenibile. Ciò accade per molte ragioni diverse. Le decisioni da assumere pongono gerarchie e priorità che implicano la composizione di variabili e interessi tra di loro contrapposti.
Dicotomie profonde tra inquinatori passati e presenti, stili e speranze di vita, competitività relativa e trend demografici, distribuzione degli oneri e disuguaglianza sociale, maturità e leadership tecnologiche, consenso pubblico e responsabilità intergenerazionali. Le fratture di interesse su cui andrà costruita una politica di sostenibilità credibile ed efficace non coincidono di certo con i soli confini geografici, all’interno degli stessi Stati sorgeranno inevitabilmente conflitti tra le opportunità e la perdita di competitività e sicurezza sociale, così come scambi di valore ambientale e debiti futuri tra generazioni. Anche la relazione tra transizione e democrazia è tutt’altro che scontata e prevedibile, sarà la storia a decretare quale risulterà essere il nuovo rapporto relativo tra i due sistemi. La sostenibilità sarà quindi sopratutto una prova epocale di visione, compromesso e concretezza. La visione globale e unitaria andrà costantemente ricercata e resa impegnativa, ma la sua faticosa ricerca non dovrà costituire un alibi per le democrazie occidentali. L’urgenza non dovrà pregiudicare la ricerca di politiche correttamente finalizzate a garantire competitività duratura e sviluppo condiviso.
E’ indispensabile promuovere immediatamente le iniziative che trovano già adesso un chiaro vantaggio ambientale e sono economicamente praticabili, dalle rinnovabili alle infrastrutture per l’economia circolare. Moltissimo può e deve essere accelerato in questo senso, ci sono abbondanti capitali privati e iniziative imprenditoriali frenate dalla incertezza e dalla burocrazia. Ci sono poi ad oggi circa il 50 per cento delle iniziative di decarbonizzazione in Europa che sono prive di una logica d’investimento economicamente razionale. Sarà difficile che le risorse pubbliche possano coprire interamente il delta senza pregiudicare il già fragile welfare e appesantire ulteriormente le finanze pubbliche. Solo uno strutturato sviluppo tecnologico potrà sostenere coerentemente la transizione sperando di esserne protagonisti e non vittime. La tentazione di sussidiare dovrà essere dunque indirizzata più efficacemente sulla ricerca.
Resta una quota di decarbonizzazione “hard-to-abate”che andrà sostenuta selettivamente dalle risorse pubbliche, sarà cruciale indirizzarle avendo in mente un’idea di sviluppo industriale desiderabile e sostenibile nel tempo. E’ stato scritto che i prossimi decenni porteranno più cambiamenti al sistema naturale e umano di quanto si siano realizzati nell’intera storia dei sapiens. Forse l’esercizio di composizione degli interessi planetari più complesso ed urgente che sia mai stato affrontato.
Valerio Camerano,
Managing Director Algebris, gia Amministratore Delegato A2A - Sostenibilita’
tra debito e crescita