Missione 2 (quasi impossibile): riqualificare gli edifici pubblici
Il Pnrr alla prova dell’efficienza energetica. Per la Corte dei conti è un’impresa anche sostituire una caldaia
“Missione 2, componente 3”. Il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) prescrive un ruggente programma di interventi per l’efficienza energetica e la riqualificazione degli edifici con una dotazione finanziaria complessiva di 15,36 miliardi. La transizione, da portare a termine entro il 2026 riguarda, ovviamente, anche molti edifici pubblici, in particolare 195 scuole e 48 uffici giudiziari di cui è proprietaria la Pa centrale. Il problema è se lo stato ce la farà. Lo stesso stato per il quale, carte alla mano, sostituire una caldaia diventa un attraversamento sulle sabbie mobili.
Una risposta, sospesa tra scommessa, ragione e speranza, c’è. Però bisogna prima affondare nelle pieghe della politica burocratica, districarsi tra gli acronimi, tenere in debita considerazione i decreti intersettoriali, prendere insomma coscienza, per iniziare, che già esiste da anni un Prepac, Programma di riqualificazione energetica della Pubblica amministrazione Centrale. Ora da riformare, naturalmente.
Le carte sono quelle della Corte dei conti, in uno di quei report dove l’occhiuta magistratura contabile dà il meglio di sé. Raccontano questa storia all’apparenza minore e noiosa, in realtà significativa, esemplare, a suo modo divertente: l’ascesa, la caduta e la resurrezione (forse) del Prepac. Tutto parte da una direttiva europea del 2012 che stabilisce che ciascuno stato membro garantisca di anno in anno la riqualificazione energetica di almeno il 3 per cento della superficie coperta utile degli uffici di proprietà ed occupati dalla Pa centrale. Due decreti del 2014 e soprattutto del 2016 (con un grave ritardo di due anni) provvedono ad attuare la direttiva. Viene previsto che il ministero dello Sviluppo economico, di concerto con il ministero dell’Ambiente (oggi della Transizione ecologica), sentito il ministero delle Infrastrutture e Trasporti (oggi delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile) e in collaborazione con l’Agenzia del Demanio e col supporto di Enea e del Gestore dei servizi elettrici-Gse, predisponga ogni anno dal 2014 al 2020 il relativo piano di interventi.
Da notare che al ministero delle Infrastrutture, che in questo caso lavora di supporto al Mise con la sua II Seconda divisione - Opere pubbliche di competenza statale, fanno capo i sette provveditorati interregionali che hanno in realtà poi forti competenze sulla fase esecutiva degli interventi, sui collaudi e sui controlli. Non manca la Cabina di regìa per l’efficienza energetica, costituita dal Mise e dal ministero dell’Ambiente (a otto teste: quattro membri per ciascun dicastero), che una volta al mese coordina e monitora lo stato di avanzamento del programma.
Non mancano neanche le risorse finanziarie. Che restano però un auspicio a fronte di capacità realizzative ridotte nei fatti al lumicino. Per la stagione 2014-2020, vengono messi a disposizione 355 mln di euro (255 a carico del Mise e 100 a carico dell’Ambiente). Per 162 iniziative sono stipulate le relative convenzioni per un valore di oltre 200 milioni ma per 67 progetti non sono attivate le relative procedure e per altri 67 sono affidati incarichi di progettazione per 3.149.195 euro. Per 25 interventi sono stipulati i contratti per l’esecuzione di opere e forniture per 10.709.182 euro. Ma soltanto per tre contratti (tutti per immobili utilizzati dai Vigili del fuoco) risultano conclusi i lavori, per un importo totale di appena 379.906 euro.
Così, eccoci al bilancio finale, secondo la Corte dei conti: alla data del 4 dicembre 2020, gli importi liquidati sono stati, nel complesso, pari a 6.837.373 euro. E i controlli? Zero. Perché il controllo sulla esecuzione dei lavori è esercitato attraverso un metodo a campione, per un numero di progetti selezionati non inferiore al 10 per cento rispetto alle richieste di contributi finanziate. Ma ad oggi – annotano i giudici contabili – non è stata prevista alcuna attività di controllo, non essendo stati ultimati gli interventi finanziati ai fini della realizzazione del programma. Infine, la staffilata sullo stato manutentore-green: “L’insoddisfacente stato di realizzazione degli interventi si riscontra anche in quei casi, peraltro abbastanza numerosi, nei quali l’attività prevista era caratterizzata da non particolare complessità, quale la semplice sostituzione di una caldaia e il miglioramento dei sistemi di illuminazione”.
Come se ne esce? Innanzi tutto c’è da dire che un anno fa un nuovo decreto ha aggiornato (ma sempre con due anni di ritardo) una direttiva europea del 2018 che a sua volta aveva modificato quella iniziale del 2012: il Prepac è stato prolungato al 2030 e la Cabina di regìa è stata ampliata coinvolgendo il ministero delle Infrastrutture (che prima poteva essere solo invitato) ed il Mef mentre la gestione delle proposte è affidata al Mise. A loro volta i magistrati contabili sostengono che l’impianto normativo è da rivedere, che sono troppe le amministrazioni in campo nella selezione dei progetti, che il sistema del “manutentore unico” come strumento operativo in cui opera l’Agenzia delle Entrate per centralizzare le manutenzioni ordinarie e straordinarie degli immobili statali non funziona.
Così si spera che Palazzo Chigi spinga sull’acceleratore visto che è stato già istituito un comitato interministeriale per assicurare il coordinamento delle politiche nazionali per la transizione ecologica e la relativa programmazione. E la “Missione 2, componente 3” del Pnrr dovrebbe fare il miracolo promesso della riforma del Prepac per velocizzare programmi e “prassi gestionali”. Come dire: Draghi, pensaci tu, solo tu ce la puoi fare.