Il lavoro deve essere Covid free
La crescita si realizzi in sicurezza. Sulla certificazione ha ragione Confindustria
“Dopo aver visto l’adorato viso di Anna Frank usato allo stadio non mi stupisco più – chi parla è Liliana Segre –. Non dico che sono insensibile, ma mi è venuta una sorta di scorza”. Per quanto mi riguarda, non riesco a rassegnarmi quando vedo – a partire dalla mia città – le piazze centrali invase da “terrapiattisti’’ che invocano a sproposito i diritti costituzionali ed esibiscono una stella gialla paragonando il green pass’ alla Shoah. Magari erano gli stessi che, nei tempi eroici del lockdown, come i muezzin de noantri, salivano all’ultimo piano tutte le sere alle 18 per scambiarsi a voce l’augurio di regime del “tutto andrà bene’’. Durante le varie fasi della crisi ci siamo sottoposti di buon grado a tutte le restrizioni imposte, anche se prive di senso. Poi sono diventati disponibili i vaccini e dopo molte difficoltà è partita con un discreto successo la campagna per la somministrazione di massa.
Ora siamo a un passo dal ripristino di una normalità di vita e di lavoro: il superamento del divieto dei licenziamenti va in questa direzione ed è disonesto collegare a questa decisione le crisi pregresse di alcune aziende. Oggi è assolutamente prioritario non soffocare nella culla una ripresa che presenta trend inaspettati. Ed è veramente singolare che i sindacati accusino la Confindustria di volere il green pass per “far girare’’ il più possibile le macchine negli opifici manifatturieri. Draghi è riuscito ad aprire la strada dell’utilizzo della certificazione verde, sia pure in settori ancora limitati per dare solidità a una strategia alternativa rispetto a quella delle chiusure e dei coprifuochi. A pensarci bene le restrizioni – specie quelle nella scuola e nella Pa – erano dettate dall’esigenza di ridurre i focolai dei contagi derivanti dai contatti e dagli assembramenti. E si è rivelata una procedura stupida perché per sbarrare l’accesso in un ristorante a un possibile “untore’’ si è proceduto a chiuderlo anche per le persone sane. Il green pass invece determina un comportamento sensato: il ristorante resta aperto, ma l’ingresso è precluso a chi non fornisce le garanzie richieste.
Ma, diciamoci la verità, quelli che frequentano i locali pubblici, si recano in palestra, al cinema e a teatro sono una esigua minoranza rispetto a quanto fanno – tutti i giorni – milioni di nostri concittadini: recarsi al lavoro, stare insieme ad altri nello svolgimento delle mansioni affidate, frequentare a turni i luoghi in comune, rincasare sui mezzi pubblici. Per non parlare di quei giovani i quali rischiano di trovarsi in classe con compagni e insegnanti renitenti alla vaccinazione.
Il green pass ha un senso solo se il governo è in grado di “sparare nel mucchio’’. L’app non comporta alcun obbligo di vaccinarsi, ma è un passepartout necessario per riconquistare la normalità del vivere civile. E viene ammessa una alternativa: dimostrare, tampone alla mano, di non essere portatori di contagio, anche se liberi di non vaccinarsi. I nostri diritti (quanti delitti in loro nome!) non arrivano al punto di mettere a rischio la sicurezza e la salute del prossimo. I protocolli sottoscritti dalle parti sociali e dal governo, nell’aprile 2020, hanno avuto il merito di consentire la riapertura dei settori strategici e di recuperare, nel secondo semestre, buona parte del pil demolito nel primo. Ma le misure previste per l’accesso al lavoro sono assolutamente coerenti con l’adozione del green pass. La differenza la fa la scoperta dei vaccini che al tempo dei protocolli non erano disponibili. Basta leggere il testo con un minimo di onestà per riconoscere che Confindustria ha ragione.