La proposta di Meloni sull'equo compenso è un Rdc per i professionisti
Quello suggerito dalla leader di Fratelli d'Italia è un modello basato sugli studi legali. Ma se c’è un sistema che non funziona ed è sempre più contro mercato è proprio quello degli albi e ordini professionali
I professionisti più giovani, iscritti a ordini professionali da meno di cinque anni, e quelli non iscritti a nessun albo, purché in possesso delle qualità necessarie e richieste dal mercato, potranno concorrere agli incarichi del Piano nazionale di riforme (Pnrr). Potranno inoltre beneficiare di una “libera mobilità”, senza autorizzazione degli organismi ed eventuali albi di appartenenza, ad eccezione degli enti locali e del servizio sanitario nazionale. Sono i correttivi del governo per reclutare il personale soprattutto per innovare la Pubblica amministrazione. Un mese fa un concorso per i giovani del sud era andato scoperto per due terzi delle 2.800 posizioni offerte in quanto l’ammissione era stata giudicata troppo complessa; il ministro Renato Brunetta aveva aperto la quota residua ai 37 mila candidati che si erano presentati per la preselezioni, su 102 mila candidati, il che aveva trasformato una ricerca di personale qualificato nel classico concorsone.
Il governo sembra aver fatto tesoro dell’esperienza andando oltre, cioè rompendo gli steccati costituiti dagli ordini e dagli albi professionali, dalle gerarchie di età delle corporazioni, e delle stesse aree della pubblica amministrazione. È una linea che va contro a una proposta di Fratelli d’Italia per istituire un “equo compenso” per i professionisti che lavorino in strutture di tipo paralegale – per esempio in appoggio a banche o società di cartolarizzazione crediti – purché siano iscritti a un albo professionale e provengano da studi con oltre 50 dipendenti e oltre 10 milioni di fatturato. Il modello proposto dal partito di Giorgia Meloni, firmataria della proposta, è proprio quello degli studi legali. Ma se c’è un modello lavorativo che non funziona ed è sempre più contro mercato è quello degli albi e ordini professionali e in particolare degli studi legali. Si tratta in Italia di 27 albi e 2,3 milioni di iscritti, i quali, con alcune eccezioni quali medici, ingegneri e notai, soffrono di carenza di lavoro e livellamento verso il basso.
A giugno scorso il governo era già intervenuto abolendo l’esame di stato per molte categorie che prevedono il tirocinio universitario (tipicamente i medici), riconoscendo la laurea abilitante ed erodendo il potere degli ordini professionali. Quanto proprio agli avvocati la situazione è paradossale: gli iscritti all’ordine professionale sono 245.478 nel 2020 rispetto ai 243.488 del 2018, una progressione costante. Secondo lo Ue justice scoreboard, l’osservatorio della Commissione europea sul funzionamento della giustizia, il nostro paese ha il maggior numero assoluto di avvocati di tutta Europa, e in rapporto alla popolazione il quarto: ci precedono Lussemburgo, Cipro (casi a parte, viste le società fittizie di questi paradisi fiscali) e la Grecia. L’Italia ha 388 avvocati ogni 100 mila abitanti, la Spagna 300 e la Francia 100. All’estremo opposto la Svezia ha 60 avvocati ogni 100 mila abitanti. Questo ovviamente non significa che il nostro sistema legale ne benefici, anzi: abbiamo il record di lentezza dei processi e di ricorsi. È una realtà che gli organismi di categoria, molto autoreferenti e che i partiti trattano alla stregua di serbatoi politici, cercano sempre di minimizzare. Ma gli studi annuali del Censis in collaborazione con la Cassa forense, che si occupa degli avvocati attivi (231.295 nel 2020) la confermano.
L’ultimo rapporto Censis sull’avvocatura del 2021 rivela una distribuzione geografica che non corrisponde al Pil: il 45 per cento degli avvocati sono al Sud e nelle isole, il 33 al Nord, il 22 al Centro. Il 38 per cento ha tra i 40 e i 50 anni, il reddito medio è 40 mila euro lordi, e benché le donne siano leggermente prevalenti un avvocato uomo guadagna decisamente di più: 54.500 euro, 57.600 al Nord. Il reddito medio delle donne è 25 mila euro. Fra 30 e 34 anni un avvocato guadagna in media 16.500 euro (con i quali non si paga un mutuo né si investe sull’istruzione dei figli), a 44 anni raggiunge i 30 mila, per superare i 50 mila deve avere 50 anni e oltre. Non è sempre stato così. A fine anni 80 gli avvocati iscritti all’albo erano 48 mila, con tenori di vita decisamente più elevati. Il livellamento verso il basso è dato sia dall’impennata in cifre assolute sia dalla distribuzione regionale: in rapporto alla popolazione svetta la Calabria (7 per mille abitanti), a ruota la Puglia. Ma all’aumento numerico non corrisponde un pari miglioramento qualitativo: mentre secondo il Censis “la maggior parte si occupa di cause civili e molte riguardano controversie stradali e sinistri assicurativi”, gli avvocati esperti in diritto internazionale, comunitario, in materie quali copyright e nuove tecnologie scarseggiano, così come gli investimenti. Secondo l’Osservatorio professioni e innovazione digitale del Politecnico di Milano il 66 per cento degli studi nel 2019 e 2020 ha investito in tecnologie meno di tremila euro, il costo di due pc. L’accesso alle banche dati comunitarie, delle imprese, per non parlare di start up, è riservato a una stretta minoranza. In questa situazione l’equo compenso potrebbe apparire un atto dovuto; al contrario è una specie di reddito di cittadinanza per legali non collegato alla realtà e il cui controllo è affidato ai titolari degli studi. Un’iniziativa poco equa e molto politica.
Eppure il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, in un’intervista alla Stampa alcuni giorni fa, ha indicato negli stipendi bassi “il motivo che spiega la propensione di molti nostri giovani preparati a cercare un impiego all’estero”. Aggiungendo: “Nel corso del primo trimestre 2021 sono stati rinnovati otto contratti nazionali di categoria. Mentre quelli in attesa di rinnovo sono 43 e interessano circa 9,7 milioni di dipendenti, il 78,5 per cento del totale, con un monte retributivo pari al 77,7 per cento” spiega Blangiardo. “Una popolazione sempre più vecchia e longeva come quella italiana non può permettersi forme anticipate di pensionamento. Ritengo che la flessibilità in uscita dal mercato del lavoro debba essere sostenibile finanziariamente”, mentre i lavoratori maturi dovrebbero essere “messi in condizione di continuare ad offrire il loro contributo, naturalmente per scelta libera, in modo flessibile e con adeguate forme di incentivazione e senza contrapposizione con l’occupazione giovanile”. È certamente una tirata d’orecchie a Quota 100 e alle aziende e ai sindacati che giocano al ribasso, puntando sulla quantità anziché sulla qualità e sulla produttività. L’equo compenso non rientra proprio tra i rimedi