Gli ostacoli per attrarre in Italia Intel
Lo sforzo di Giorgetti per portare gli investimenti dell'azienda statunitense nei chips a Mirafiori si scontra con la logica “anti-delocalizzazioni”
Un chip, di questi tempi, vale bene un’amnistia. È il messaggio di Ferragosto che arriva dalla Corea del sud, assieme a Taiwan la terra promessa dei semiconduttori, la materia prima più preziosa nell’èra dell’elettronica. Lee Jae-yong, erede del colosso Samsung, in galera da 18 mesi per scontare una condanna a 30 mesi per corruzione a favore dell’ex presidente della Repubblica, è uscito di prigione il 13 agosto beneficiando della grazia concessa in occasione della festa della Liberazione “in ragione della situazione dell’economia nazionale e mondiale ai tempi del Covid-19”, segnala il ministero. Nel rispetto del sentimento popolare e della condotta di Lee in carcere. Ma la grazia nasce dalle pressioni dell’industria Usa: la liberazione di Lee era la condizione posta dall’azienda coreana per dare il via a una fabbrica in terra americana dei preziosi chip.
L’episodio serve a dare una misura della concorrenza, durissima, che Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico dovrà affrontare per assicurare all’Italia l’investimento di Intel, il gruppo Usa che intende creare in Europa un grande polo produttivo in grado di far raddoppiare la quota di mercato nei chip dell’Unione europea. Un piano fatto di moduli, otto in tutto, che nel giro di dieci anni potrebbe mobilitare 20 miliardi all’inizio per poi salire fino a 100 miliardi di dollari, tutti in chip ormai indispensabili per produrre qualunque cosa, dal tostapane alla macchina del caffè all’automobile. A questa gigantesca partita di poker Giorgetti ha già giocato, a inizio agosto, una carta importante: lo stabilimento di Mirafiori, un simbolo di Torino e dell’industria del Novecento, oggi solo in piccola parte utilizzato da Stellantis. Una sede “ideale” ha sottolineato il ministro, per tante ragioni.
Mirafiori ha una collocazione strategica e la presenza dei poli universitari di Torino e di Milano potrebbe fornire manodopera preziosa per fabbriche ad alto contenuto tecnologico. Certo, la concorrenza è tanta: una volta tanto i francesi, visto il ruolo di Stellantis, potrebbero darci una mano, ma la sfida riguarda anche la Spagna e, soprattutto, la Germania. La Baviera ha già mobilitato, assieme ai vertici di Bmw e Deutsche Telekom, il ministro dell’Economia che ha incontrato il ceo di Intel, Pat Gelsinger. Ma il manager è stato in visita anche da Draghi che, si sa, gode di ottima reputazione in Usa. La sfida, insomma, è difficile ma non impossibile. A meno che non entri in campo il fuoco amico. La gara per assicurarsi l’investimento di Intel coincide, temporalmente, con il dossier “delocalizzazioni”, ovvero l’impatto emotivo provocato dalla chiusura e dai licenziamenti decisi da alcune multinazionali: dalla Gianetti Ruote, controllata dal fondo tedesco Quantum, alla Gkn di Campi Bisenzio del fondo inglese Melrose. Tutte imprese metalmeccaniche, multinazionali, fornitrici per l’assemblaggio di auto, tutte coinvolte nel gigantesco cambiamento imposto dalla rivoluzione dell’elettrico e dalle nuove norme ambientali.
Un fenomeno prevedibile, comunque inarrestabile e senz’altro doloroso: l’auto elettrica comporta l’uso di un numero molto inferiore di componenti, impone scelte drastiche e severe, al cospetto di costruttori che tendono a riportare in casa lavorazioni assegnate all’esterno. La fuga all’estero per tagliare il costo del lavoro c’entra poco o comunque assai meno che in passato. In questa cornice il margine per il provvedimento allo studio presso il ministero del Lavoro per frenare il flusso in uscita (peraltro limitato) e introdurre vincoli al trasferimento di produzioni dall’Italia, è davvero ristretto. Il rischio è di introdurre, con le nuove norme “antidelocalizzazioni” vincoli che non solo contrastano con le regole europee ma che vanno in direzione opposta allo sforzo per attrarre in Italia Intel o altre attività ad alto tasso di crescita.