i calcoli a palazzo chigi
Ilva, Mps, Alitalia. Il peso delle crisi mal gestite dal governo Conte
Quanto pesa sui conti di Draghi l’eredità giallorossa. I nuovi paletti di Giorgetti
A Palazzo Chigi e dintorni stanno facendo i calcoli: quanto pesa la zavorra lasciata dal governo Conte e quanto ingombrano le bandierine che i partiti stanno piantando sul Pnrr? L’ultimo mal di testa è scoppiato con i conti dell’Ilva; che andasse male era scontato, ma viste nero su bianco le cifre impressionano anche perché adesso se ne deve far carico il bilancio pubblico. Si fa presto a dire nazionalizziamo se poi a pagare sono in ultima istanza i contribuenti. Ciò vale anche per il Montepaschi e per l’Alitalia. Le Acciaierie d’Italia (così si chiama l’Ilva dopo che il governo attraverso Invitalia è diventato azionista con il 38 per cento) hanno chiuso il 2020 in rosso per 265 milioni di euro. Il margine operativo è ancora negativo per 304 milioni e la posizione finanziaria netta ha un buco di 1,19 miliardi. Il 2021 è cominciato in modo incoraggiante anche grazie alla ripresa della domanda di acciaio, ma pesano già le incertezze soprattutto nel comparto dell’auto che è il principale cliente degli altiforni tarantini.
Franco Bernabè, Stefano Cao e Carlo Mapelli (la troika nominata da Draghi) dovranno rimboccarsi le maniche. Il rischio è che Daniele Franco, il ministro dell’Economia, debba ancora metter mano a un portafogli dal quale ha già attinto in abbondanza l’Alitalia e che dovrà sostenere Mps non si sa bene con quanti miliardi di euro. Dalla nuova compagnia aerea non vengono bei segnali, prima ancora di partire i sindacati hanno indetto uno sciopero per il 24 settembre, una sorta di “attacco preventivo”.
Ci sono 5 mila esuberi e poi Ita vuole avere mano libera sui contratti, denunciano i sindacalisti. Ma l’amara verità è che la “startup”, come è stata chiamata, non potrà decollare senza una revisione dei costi e un impiego migliore del personale. Quanto alla banca senese, le pressioni corporative e localistiche rendono più difficile seguire l’aureo principio della efficienza e della buona gestione spacchettando un gruppo mal assemblato tra le radici toscane, le rendite governative, l’Antonveneta e la banca salentina. Tre puzzle tutti da comporre, risorse finanziarie, umane e politiche si consumano per mettere insieme tasselli non comunicanti come i cosiddetti “tavoli di crisi”. Allo stato attuale sembra che siano 87, il ministro Giorgetti intende sfoltirli e ha diramato una direttiva sulle condizioni per aprire un dossier al Mise (per esempio le aziende debbono impiegare almeno 250 dipendenti, essere localizzate in più di una regione, avere una rilevanza strategica ai sensi del golden power e possedere marchi storici). Intanto viene ridimensionato il decreto anti delocalizzazione, nel senso che non sarà richiesto il nulla osta ministeriale, tuttavia resta l’equivoco di fondo. Whirlpool delocalizza? Non proprio se chiude uno stabilimento e ne mantiene altri cinque a meno che i sindacati napoletani non considerino Ascoli Piceno, Siena o Varese terre straniere. Forse è così se nella bozza del decreto si richiede che le aziende beneficiarie di aiuti pubblici debbano assumere prioritariamente lavoratori disoccupati, cassintegrati o assistiti dello stesso territorio.
Tutto questo chiacchiericcio circonda con un rumore assordante i comitati per la realizzazione del Pnrr. Prendiamo la riconversione energetica. Il ministro Cingolani rischia di fare il san Sebastiano trafitto da destra e da sinistra solo perché cerca di ragionare sui costi, sui tempi e sui protagonisti del processo. La tecnostruttura delle Ferrovie intende disporre dei 24,7 miliardi destinati alla rete con autonomia. Industria 4.0 rischia di essere inadeguata, sia per i fondi a disposizione (18 miliardi sembrano molti, ma presto si riveleranno insufficienti) sia perché prevale ancora la logica degli incentivi a pioggia.