Crisi dei chip e “colli di bottiglia” ridisegnano la globalizzazione
Il mondo, abituato all'eccesso di offerta, si trova alle prese con l'effetto scarsità. E' così in atto una crisi dell'organizzazione mondiale del lavoro dai risvolti imprevedibili
Chip, ma non solo. La carestia non riguarda solo gli introvabili semiconduttori che stanno mettendo a dura prova il mondo dell’auto ma un numero crescente di oggetti piccoli e grandi, più o meno sofisticati, scomparsi dal ciclo produttivo globale, con un effetto inedito: il mondo, abituato all’eccesso di offerta, si trova alle prese con l’effetto scarsità che a sua volta genera un nuovo tipo di inflazione contro cui poco possono le banche centrali. E’ in atto una crisi dell’organizzazione mondiale del lavoro dai risvolti imprevedibili.
Succede che la quarantena di un solo portuale a Ningbo, terzo scalo al mondo per i container, abbia messo in crisi i tempi di carico di una super nave creando un ingorgo che ha messo a rischio l’invio dei giocattoli che riempiranno gli scaffali dei supermercati Usa per la festa del Ringraziamento. Ma le conseguenze del contagio possono essere assai più complicate, come emerge da un esempio del New York Times: la quarantena di una squadra di lavoratori dei dock al porto di Los Angeles ha provocato il ritardo dei containers riempiti di soia in arrivo dall’Iowa. Il tutto con il risultato di mettere in crisi le fabbriche dell’Indonesia ove si preparano i mangimi per animali da distribuire nel Sud Est asiatico. Intanto le misure anti-contagio in Vietnam mettono a dura prova l’esportazione via mare il caffé vietnamita, così prezioso vista la siccità che ha sconvolto il raccolto in Brasile.
Sono alcuni dei “colli di bottiglia” che stanno rallentando la ripresa mondiale. L’effetto più rilevante, si sa, riguarda il mondo dell’auto. Sono ben pochi i produttori che non devono fare i conti con i tagli alla produzione dovuti all’assenza dei chip. Dopo la resa di Toyota (che ridurrà la produzione del 40 per cento per tutto il 2021) ad alzare bandiera bianca è Stellantis: in Italia a prolungare le ferie forzate sono la Sevel di Atessa e Pomigliano. Melfi, che nella prima metà dell’anno ha sfornato il 46% delle vetture prodotte in Italia (113mila veicoli), a settembre lavorerà solo 5 giorni. Ma l’assenza di componenti ha colpito anche la produzione degli impianti ex Peugeot francesi di Rennes e Sochaux e quello tedesco ex Opel di Eisenach. Infine, la carestia ha colpito l’ex Dodge-Chrysler: si fermano le linee di Ram, Voyages e Jeep in Michigan ed i Canada. E il contagio non si limita alle quattro ruote: investe gli altri clienti dei chip, a partire da computer e smartphone.
Dalla Silicon Valley giunge l’eco di ordini eccezionali di Apple che vuol scongiurare il rischio di ritrovarsi a corto di iPhone per Natale. La stessa ansia si respira oltre Manica: le strozzature della logistica, combinate con gli effetti perversi della Brexit (manca un milione di camionisti) provoca effetti inediti: il Servizio sanitario nazionale ha dovuto rinviare in buona parte degli ospedali l’esame del sangue per l’assenza di composti per le analisi. Anche questo spiega la “sindrome da carta igienica”, come gli economisti definiscono la reazione dei consumatori che, durante il lockdown, si sono precipitati a fare scorte di rotoli.
Guai, però, a cedere a facili ironie. Primo, perché il fenomeno scarsità per i chip si sta rivelando assai più complesso di quanto non si sia pensato (e sperato) nei mesi scorsi. Secondo, perché le strozzature nella logistica e, di riflesso, nella produzione e distribuzione, stanno avendo effetti rilevanti sulla ripresa. La scarsità ha investito l’industria a ogni latitudine, compreso il made in Italy più che mai inserito nel ciclo globale delle produzioni manifatturiere. Ma l’effetto più clamoroso riguarda la Cina. La brusca caduta del settore dei servizi ad agosto è il sintomo di un malessere profondo emerso con il gigantesco ingorgo che a maggio ha paralizzato il porto di Shenzhen per settimane. Ma i problemi della logistica sono solo una parte dei limiti del modello della Great Supply Chain planetaria emersi sotto la pressione del Covid-19. Il problema sta nell’organizzazione del lavoro così com’è maturato negli ultimi decenni con l’affermazione del just in time, ovvero la riduzione all’osso degli stock in magazzino grazie a un network di fornitori e terzisti sempre più connesso e capace di tagliare i tempi, sia degli approvvigionamenti che delle consegne. Un sistema, nota sul Financial Times il consulente Peter Atwater, che ha molte similitudini con il modello di crescita del sistema bancario prima della crisi dei subprime. Allora, “quando i mutui dell’Arkansas venivano ceduti alle tesorerie delle città della Norvegia”, un sistema finanziario all’apparenza efficiente e votato alla creazione di valore con il minimo impiego di capitali, sembrava la formula vincente. Si sa com’è finita. Le difficoltà della supply chain sono la punta dell’iceberg dei conflitti che hanno intaccato i principi della globalizzazione (non a caso tutti si stanno dotando di fabbriche di chip) ma anche della necessità di rivedere la politica delle scorte. E’ inevitabile che il ripensamento si traduca in una perdita di efficienza e in un aumento dei costi. Ma è sempre meglio che scoprire all’ultimo momento di non avere più rotoli di carta igienica in casa.