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Alitalia vale come un vecchio brillocco della nonna

Fabiana Giacomotti

La valutazione di cento-centocinquanta milioni che la testata specializzata Avionews faceva del marchio, che va all'asta, è fin troppo generosa. L’Italia è giustamente molto affezionata alla sua compagnia di bandiera. Ma lo è solo lei

Alitalia non compare nella classifica dei primi cento marchi mondiali stilata annualmente da Interbrand. Nell’ultima rilevazione, datata 2020, l’Italia è rappresentata da Gucci, che volendo essere onesti dovremmo definire un marchio francese prodotto in Italia, e poi da Ferrari e Prada. Fine. Non la troverete, mai, in nessuna altra classifica di portata mondiale, tipo LoveBrands che segnala invece l’affezione e la fiducia del pubblico e che vede al primo posto in Italia Giorgio Armani.

Questo dovrebbe bastare per quantificare come fin troppo generosa la valutazione pari a cento-centocinquanta milioni che la testata specializzata Avionews faceva qualche giorno fa del marchio Alitalia, cioè dell’asset intangibile che determina l’appetibilità di una società quanto i suoi dati economici, e talvolta anche di più: per esempio, quando nel 2013 LVMH pagò Loro Piana 2 miliardi di euro, pari a 17,5 volte l’ebitda, la cifra venne ritenuta congrua grazie allo straordinario valore di marchio e alla storia di eccellenza imprenditoriale che rappresentava.

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Dunque, e nonostante l’ovvia alzata di scudi nazionalista, l’idea che Fratelli d’Italia si è fatta di un marchio di valore miliardario ricorda una di quelle sceneggiature Anni Cinquanta dove c’è qualcuno che scova il gioiello della nonna in fondo a un cassetto e, convinto di aver in mano un tesoro, già immagina la casa nuova che potrà acquistare con il ricavato della vendita fino a quando il gioielliere sotto casa, dopo averlo addentato, gli dice che si tratta di princisbecco.

L’Italia è giustamente molto affezionata alla sua compagnia di bandiera. Ma lo è solo lei: il suo marchio ha un valore affettivo e identitario importanti, i servizi erogati si sono quasi sempre rivelati superiori alla sua brutta fama (un tema di cui i tanti esperti di comunicazione ingaggiati in questi anni non si sono mai resi conto), ma trent’anni di bagarre sindacale-politica si pagano cari e non siamo sicuri che una ricerca di mercato simile a quella che una quindicina di anni fa venne affidata a Young&Rubicam sul vissuto dei viaggiatori internazionali in relazione all’affidabilità di Alitalia darebbe risultati migliori di quelli di allora.

Foto MASSIMO PERCOSSI / ANSA / KLD 

Anzi, voleste andare a cercare sul web qualche informazione su questi stessi temi in occasione di uno dei passaggi di proprietà della società, per esempio in occasione della nascita di C.A.I. che, nel 2008, avrebbe dovuto risollevare le sorti (era in amministrazione controllata, si inalberarono contro l’impossibile liberalismo italiano anche gli Usa), trovereste gli stessi protagonisti di allora che dicono le stesse cose di oggi, e cioè che il marchio era un asset importante e che non sarebbero state permesse speculazioni sul suo valore e la sua proprietà, ma che lo stesso marchio avrebbe avuto bisogno di una “importante revisione”. Come si dice oggi, di un “revamping”. C’era Antonio Tajani, all’epoca a capo della Commissione Trasporti a Bruxelles, che difendeva la continuità di brand. C’era Antonio Marazza, già allora amministratore delegato della Landor, oggi Landor&Fitch, la più importante società mondiale di brand identity, autrice del primo marchio Alitalia nel 1969 e ancora nel 2015, che raccontava come nell’ultimo quinquennio Alitalia avesse perso terreno “negli indicatori che più di tutti formano il valore di un marchio e cioè l’appeal e la fiducia dei consumatori” e che oggi non vuol dire niente – abbiamo provato a telefonargli - perché la partita in corso attorno a ITA-Alitalia potrebbe vederlo fra i protagonisti ancora una volta “per creare un new look giovane e seducente come le ambizioni della compagnia” (dichiarazione del 2015, si sa com’è andata). E c’era anche Furio Garbagnati, grande nome dei public affairs e della brand reputation anche lui sempre saldo alla guida di WeberShandwick, di cui è anche socio, che sottoscrive invece la stessa dichiarazione di allora, abbastanza divertito: “L’immagine della compagnia continua ad essere erosa”. Nel 2005, per il restyling era stata chiamata Saatchi&Saatchi: l’intervento, sostanziato in una leggera inclinazione del logo ad evocazione della sua dinamicità e in un restyling generale non memorabile, costò 520mila euro, che vennero spalmati sui bilanci 2005 e 2006. Con l’arrivo di Etihad, nel 2014, arrivarono anche la livrea giallorossa che entusiasmò solo Francesco Totti, e le divise più brutte che si potessero immaginare (nella saletta Freccia Alata di Fiumicino, le hostess imploravano le giornaliste di moda in partenza per Parigi di intervenire in qualche modo, almeno sui collant verde bottiglia che deformavano otticamente le gambe: successivamente vennero riviste da Alberta Ferretti con grande soddisfazione generale).

 

Adesso che il logo Alitalia va all’asta e che il governo ha dichiarato di voler evitare speculazioni, consentendo la partecipazione solo a vettori aerei, si dice che ITA abbia un piano B anche in tema di brand identity e comunicazione. Non si attendono interventi di “disturbatori”; più che altro, si spera si astengano. Tutto, comunque, va deciso entro quindici giorni per il futuro di Alitalia nata Lai e poi diventata Cai, Sai, Ita: quattro brevi acronimi per sessant’anni di storia che suonano come altrettanti guaiti.

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