oltre gli slogan ambientalisti
La transizione ecologica in bolletta
Il rincaro dell’energia ha diverse cause, contingenti e strutturali, ed è in parte l’esito di ciò che abbiamo desiderato. L’abbattimento delle emissioni è l’obiettivo, ma senza abbattere anche il sistema dei prezzi
I rincari dei prezzi dell’energia potrebbero essere la proverbiale pietrolina che scatena una valanga. Le quotazioni dell’energia elettrica e del gas sono ai massimi in Europa, e la tensione sui mercati non accenna a calare. I governi degli stati Ue hanno adottato o stanno adottando provvedimenti emergenziali. Al momento, solo la Spagna ha tentato di offrire una lettura articolata di quello che sta accadendo. I ministri dell’Economia, Nadia Calviño, e della Transizione ecologica, Teresa Ribera, hanno inviato alla Commissione europea un non-paper contenente diverse proposte, dalla riforma dei mercati all’ingrosso alla creazione di una sorta di rete di salvataggio comune contro l’inflazione delle materie prime. Il sottotesto politico non potrebbe essere più esplicito: “La Spagna ha sempre difeso con forza gli obiettivi europei di riduzione delle emissioni. Al tempo stesso, crediamo che la transizione verso la neutralità climatica deve essere equa e giusta per tutti i cittadini europei e gli stati membri. I cittadini devono essere sempre al centro della transizione. Il contesto attuale lo mette a rischio”.
A dire il vero, la transizione è solo un pezzo della spiegazione di quanto sta accadendo – e non il più importante, almeno se ci limitiamo all’andamento congiunturale. Come ha spiegato anche il ministro Roberto Cingolani al Corriere della sera, “per fortuna abbiamo un’economia che si sta riprendendo: questo significa crescita, che significa avere bisogno di più energia. E se aumenta la domanda salgono i prezzi delle materie prime che oggi servono a produrre quell’energia”. Infatti, gli aumenti in essere dipendono “per l’80 per cento da incrementi nei prezzi del gas e solo per il 20 per cento da CO2”. La domanda che dovremmo anzitutto porci è se siamo di fronte a una nuova normalità o se, invece, dobbiamo stringere i denti e superare la nottata.
Transizione ecologica, qual'è il legame con l'aumento delle bollette
Il gas ha raggiunto livelli record non solo in Europa ma anche in Asia e, sebbene in misura meno clamorosa, in Nordamerica. Grazie alla possibilità di trasportare il gas via nave in forma liquida, e non più solo via tubo, ormai i mercati mondiali sono vasi comunicanti, e non più reciprocamente isolati come in precedenza. Poi ci sono almeno due cause profonde. La prima è congiunturale: la ripresa dell’attività economica riverbera inevitabilmente in una maggiore domanda di gas (il quale, in taluni contesti, è quasi insostituibile: per esempio nelle industrie cosiddette hard to abate, come l’acciaio, il cemento, il vetro e la carta). Poi però c’è anche una spiegazione dal lato dell’offerta. Da diversi anni gli investimenti nell’esplorazione e produzione degli idrocarburi sono in calo. Si tratta, per certi versi, di un calo fisiologico: in fondo, prezzi troppo bassi (come quelli sperimentati di recente) non invogliano certo le imprese ad aumentare l’offerta. Ma, in qualche misura, è anche una conseguenza della nostra stessa determinazione nell’abbandono dei fossili. Da tempo l’Unione europea pubblica scenari in cui dichiara di attendersi un drastico calo della domanda interna di gas da qui al 2030. Molti stati (inclusa l’Italia) non rilasciano nuovi titoli esplorativi. E’ logico che, in queste condizioni, la produzione interna cali e i nostri tradizionali partner commerciali (come la Russia) cerchino altrove acquirenti per il loro gas. Come se non bastasse, alcuni tribunali – a partire da una storica sentenza olandese del 26 maggio contro Shell – hanno cominciato a ritenere le compagnie petrolifere responsabili non solo delle emissioni che producono direttamente, ma anche di quelle a monte e a valle nella catena del valore (cioè prodotte dai suoi fornitori e clienti; si veda Alberto Saravalle sul Foglio del 31 luglio 2021). Infine, si sono verificati temporanee indisponibilità di flussi di gas dalla Russia, sia per ragioni tecniche (disfunzioni e manutenzioni), sia perché Mosca, pur rispettando i suoi obblighi di consegna, non ha incrementato i volumi – un segnale, peraltro, che gli europei non dovrebbero sottovalutare. Sicché gli stessi stoccaggi, in Italia e in Europa, hanno livelli di riempimento insoddisfacenti.
Il gas non è l’unico driver dei rincari: c’è anche la CO2. Per raggiungere l’obiettivo di decarbonizzazione – attualmente fissato nel taglio delle emissioni del 55 per cento al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2030 – in Europa le imprese in alcuni settori devono rispettare un tetto, decrescente nel tempo. Esse possono, tuttavia, acquistare diritti di emissione da altri operatori più virtuosi: in tal modo, il mercato ne indirizza la riduzione verso quei processi e quelle tecnologie che possono realizzarla al minor costo. Dopo una lunga fase in cui i prezzi della CO2 erano rimasti a livelli assai contenuti, e giudicati insufficienti a stimolare gli investimenti sperati, l’Unione ha adottato una serie di riforme per sostenerli, e questo ha dato una spinta verso l’alto. Il resto è, paradossalmente, conseguenza del rincaro del gas: prezzi così alti hanno reso conveniente, per molti produttori di energia elettrica, sfruttare più intensamente gli impianti a carbone. Ciò implica un incremento delle emissioni e, dunque, una maggiore domanda di permessi.
E l’elettricità? I prezzi record osservati sulle borse elettriche sono il frutto delle due dinamiche appena descritte. Il meccanismo di formazione del prezzo in Borsa, chiamato system marginal price, prevede che, in ogni momento, tutti gli impianti di generazione ricevano un prezzo uguale a quello che fa incontrare domanda e offerta, e che corrisponde ai costi dell’impianto marginale (tipicamente a gas). Quindi, impianti con costi marginali molto inferiori – per esempio quelli a carbone e le rinnovabili – possono lucrare su una rendita colossale. Quando l’attuale ondata di alti prezzi era iniziata, diversi mesi fa, il governo spagnolo aveva interpellato la Commissione Ue in merito alla possibilità di passare a un altro sistema, il pay as bid, in base al quale ciascun impianto riceve un prezzo pari all’offerta che ha fatto in Borsa, e che normalmente riflette i suoi costi variabili (il combustibile). Si tratta di un tema serio: il system marginal price aveva senso quando, agli inizi degli anni Duemila, l’obiettivo era attirare nuovi investimenti in capacità di generazione (anche per evitare che si ripetessero i blackout che avevano lasciato l’Italia al buio nel 2003). Ma oggi ci troviamo in un mondo totalmente diverso: una percentuale crescente della generazione elettrica viene da fonti rinnovabili, che hanno una struttura dei costi interamente sbilanciata verso i costi fissi, e costi variabili bassi o nulli. Bruxelles, però, aveva risposto negativamente alla richiesta di Madrid, che infatti ha ribadito la questione nel non-paper di lunedì scorso. Come si vede, insomma, ci troviamo al centro di una tempesta perfetta, dove fattori di mercato – solo in parte congiunturali – si allineano agli esiti delle policy nello spingere i prezzi verso l’alto. Si arriva in tal modo agli aumenti delle bollette nei prossimi mesi, mitigati dallo stanziamento di 3 miliardi, che potrebbero interessare molte famiglie e imprese italiane già colpite dai rincari dello scorso trimestre (a loro volta mitigati da uno stanziamento straordinario di 1,2 miliardi derivanti dalle aste per i diritti di emettere la CO2).
Che fare? Intanto, prendere atto che – almeno in qualche misura – stiamo raccogliendo ciò che abbiamo seminato. Ci siamo lamentati per anni che i prezzi della CO2 erano troppo bassi, e ora superano i 60 euro a tonnellata (gli spagnoli puntano il dito contro la speculazione, ma è una spiegazione poco convincente). Ci siamo attivamente impegnati (come paese) a ridurre la produzione domestica di gas, anzi, abbiamo invocato lo stop alla ricerca di nuovi giacimenti in tutto il mondo. Insomma: abbiamo ciò che volevamo.
Nel paese si è così aperto un vasto dibattito sul cambiamento del mix di generazione elettrica: c’è chi invoca più rinnovabili e chi vorrebbe tornare al nucleare. Le prime sono indispensabili per centrare gli obiettivi per il 2030; l’altro è, nella migliore delle ipotesi, una chimera, almeno con le attuali tecnologie, per ragioni non solo di accettabilità sociale ma anche di costi. A ogni modo, né le rinnovabili né il nucleare possono dare risposte nel breve termine. E’ però importante sviluppare la consapevolezza che, quanto più riteniamo il cambiamento climatico la peggiore minaccia che l’umanità abbia mai affrontato, tanto più dobbiamo abbandonare la “comfort zone” delle nostre tecnologie preferite: chi adora le rinnovabili dovrà accettare che senza il nucleare (non in Italia, forse, ma in Europa e nel mondo) raggiungere la neutralità carbonica sarebbe ancora più difficile e costoso; chi idolatra l’atomo dovrà riconoscere che le rinnovabili e gli accumuli faranno necessariamente la parte del leone; ed entrambi dovranno arrendersi di fronte al fatto che per arrivare vivi alla neutralità climatica avremo ancora bisogno di tanto gas (e biogas), specialmente se confermiamo la decisione di abbandonare il carbone (in teoria nel 2025 in Italia, ma solo nel 2038 in Germania). E questo chiama in causa un’altra tessera del mosaico energetico: le tecnologie di cattura, stoccaggio e utilizzazione della CO2, che possono contribuire a rendere sostenibile l’uso del gas, sia nella generazione elettrica, sia nella produzione di idrogeno. Lo ha confermato, martedì, un comunicato dell’Agenzia internazionale dell’energia. Nel sottolineare che gli aumenti non dipendono dalle politiche per la transizione energetica, il capoeconomista Fatih Birol dice: “I legami tra i mercati dell’elettricità e del gas resteranno per molto tempo. Il gas rimane uno strumento importante per bilanciare i mercati elettrici… Man mano che ci avviciniamo alla neutralità carbonica, la domanda di gas comincerà a calare, ma resterà un’importante componente della sicurezza elettrica”.
Ma queste sono soluzioni di lungo termine. Nel breve, servono interventi di altro tipo. In Spagna il governo di Pedro Sànchez ha deciso di tagliare con l’accetta: ha introdotto una tassa sugli extraprofitti delle utilities, che colpirà in modo particolare le rinnovabili. Non è una proposta saggia. D’altronde, noi ne sappiamo qualcosa: nel 2008 l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, volle a tutti i costi la cosiddetta Robin Hood Tax sui presunti extraprofitti delle compagnie petrolifere. L’imposta venne poi cassata dalla Corte costituzionale in quanto contraria ai principi della Carta. Inoltre, non era corretto parlare di extraprofitti in quel frangente e non lo sarebbe oggi, per le ragioni che abbiamo visto. I prezzi delle commodity energetiche riflettono le condizioni reali della domanda e dell’offerta – e sono destinati a inasprirsi ulteriormente, se l’inverno sarà rigido.
Diversi governi europei prevedono una riduzione temporanea dell’Iva o di altre imposte. Anche questo sarebbe un errore, quanto meno se pensato come intervento spot. Si può discutere se il prelievo fiscale sull’energia sia eccessivo, ma mettere mano alla variazione (nascondendola attraverso la sterilizzazione delle imposte) farebbe venir meno il fondamentale ruolo allocativo dei prezzi. Se l’offerta diventa più scarsa rispetto alla domanda, bisogna che questa circostanza venga sintetizzata nel prezzo, inducendo comportamenti più attenti.
Si possono, invece, ipotizzare misure di altro genere, che – pur prendendo le mosse dalla congiuntura – cerchino di affrontare il problema in modo strutturale. Intanto, riconoscere che la transizione ha dei costi: l’uso della fiscalità (o di strumenti analoghi, come le quote di CO2) per incorporare nel sistema dei prezzi anche il costo delle esternalità va benissimo, anzi dovrebbe essere la via maestra, ma il gettito andrebbe impiegato per restituire a famiglie e imprese quello che hanno perso in termini di benessere. Il governo lo ha fatto in via eccezionale lo scorso trimestre, e probabilmente lo farà di nuovo, usando i proventi delle aste della CO2 per finanziare una porzione degli oneri generali di sistema: questo approccio andrebbe reso permanente, non transitorio. Ma presuppone anche l’abbandono dell’idea che quelle risorse possano essere spese a sostegno di questa o quella tecnologia.
Secondariamente, gli aumenti dei prezzi (indipendentemente dalla loro origine) ricadono sproporzionatamente sulle famiglie meno abbienti. In un lavoro per la Banca d’Italia, Ivan Faiella e Luciano Lavecchia hanno mostrato che una carbon tax di 100 euro/tonnellata di CO2 spingerebbe il decile più povero della popolazione a ridurre i suoi consumi di elettricità del 5,1 per cento, di calore del 9,8 per cento e di carburanti per il trasporto del 7,7 per cento. E’ quindi urgente ripensare, potenziando e riformando, gli strumenti di contrasto alla povertà energetica (una proposta articolata in tal senso è contenuta in uno studio dell’Istituto Bruno Leoni del 2018).
Infine, occorre prendere atto che il meccanismo di formazione dei prezzi al dettaglio ha fatto il suo tempo: sebbene gli aggiornamenti trimestrali dei prezzi riguardino ormai meno della metà delle famiglie, che sono ancora rimaste nella cosiddetta maggior tutela, il loro impatto emotivo e comunicativo è ben più ampio. Eppure, molti di quelli che hanno sottoscritto un’offerta sul mercato libero hanno scelto di averla a prezzo bloccato. Da tempo è in atto una campagna contro questo tipo di offerte, che in media hanno un costo superiore perché contengono una componente assicurativa: ebbene, di fronte agli aumenti monstre previsti per fine mese, finalmente si capisce che quelli che sono stati svillaneggiati forse tanto fessi non lo erano.
In conclusione, gli aumenti che stiamo sperimentando hanno ragioni sia immediate sia profonde; sia di mercato sia legate alle policy. Si può fare qualcosa per attenuarli ma nel complesso essi rispondono a dinamiche non solo inevitabili ma, addirittura, evocate e volute. Occorre quindi far uscire la politica climatica dalla fase puberale in cui si trova, nella quale ogni governo pretende di scegliere le fonti e le tecnologie preferite e di combinarle tra di loro come se fossero mattoncini Lego. E’ il momento di una politica climatica adulta.