La Nadef, l'effetto Draghi e l'insegnamento del caso Colombia
Oggi è il tempo della spesa, come ha ricordato il presidente del Consiglio. Ma domani? Il debito pubblico non sparirà da solo, e l'effetto reputazione non durerà a lungo
Quando nel bel mezzo della pandemia il governo Conte diede le dimissioni, era il 26 gennaio di quest’anno, i mercati finanziari mostrarono una certa inquietudine sulla nuova fase di potenziale instabilità politica italiana: lo spread Btp-Bund raggiunse circa i 123 punti base (22 gennaio), il punto più alto da novembre. Poco dopo l’insediamento del nuovo governo Draghi, il 13 febbraio, i mercati tirarono un sospiro di sollievo e lo spread cadde a 90 (16 febbraio): ci avrebbe pensato “Super Mario” a mettere in riga partiti riottosi, a organizzare la lotta alla pandemia, a ottenere, prima, e ben spendere, poi, i fondi dell’Europa. Oggi lo spread oscilla intorno ai 100 punti base. Certo, come ha più volte ripetuto il primo ministro, oggi è il tempo della spesa (investimenti e transizione verde), e non dei tagli. Ma domani? Il nostro debito pubblico non sembra intenzionato a sparire.
Al contrario, a causa della recessione e dell’espansione fiscale richiesta per contrastarla, ha superato quest’anno il 155 per cento del pil, contro una media della zona euro del 98 percento nel 2020. Con un disavanzo fiscale al 9,4 per cento del pil (media della zona euro 7,2 per cento), non sarà facile ristabilire un equilibrio finanziario dei conti pubblici quando si esaurirà l’erogazione dei prestiti europei (la maggior parte erogata entro il 2023), quando verrà meno la possibilità per la Commissione europea di emettere eurobond (nel 2026) e verrà ripristinato, chissà come e in che forma, il Patto di stabilità, quando infine, verosimilmente presto, la Bce ridurrà gli acquisti di titoli di stato e i tassi di interesse reali riprenderanno a salire.
La Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef) mostra un andamento del pil e del bilancio più favorevole rispetto alle stime precedenti e prevede che la politica di bilancio rimanga espansiva fino al 2024, quando il disavanzo si avvicinerà alla soglia del 3 per cento del pil. Il governo stima che rapporto debito pil raggiungerà i livelli precrisi, il 130 percento circa, non prima del 2030. E nel frattempo? Se la crescita tornasse ai livelli pre-Covid, un livello così elevato del debito in eredità al prossimo governo potrebbe esporci di nuovo al rischio di un forte aumento dei tassi e di una nuova fase di instabilità finanziaria. L’effetto reputazione Draghi potrebbe scongiurare questo pericolo?
Un recente lavoro di carattere storico ed econometrico scritto con Ugo Panizza (Graduate Institute, Ginevra) e Francesca Caselli (Fmi) ci induce a pensare che l’effetto reputazione non duri a lungo. Nel paper affrontiamo un interessante episodio storico: quello della Colombia nei primi anni ‘80. All’epoca la situazione della Colombia era piuttosto difficile: alto debito estero, disavanzo di parte corrente, deficit di bilancio, stagnazione, inflazione, come del resto era negli altri paesi dell’America Latina. Ma la Colombia, a differenza dei propri vicini (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay, Messico, San Salvador, Guatemala, Haiti, Perù, Ecuador, Jamaica, Bolivia, Venezuela, Nicaragua, Costa Rica), fu l’unico paese a non fare default sul proprio debito. O meglio, grazie all’appoggio politico dell’amministrazione statunitense, riuscì a ristrutturare il proprio debito evitando lo stigma del soccorso del Fondo monetario. Il risultato premiò lo sforzo: rispetto ai vicini in bancarotta, la Colombia riuscì per un paio di anni ad aumentare la crescita, a ridurre l’inflazione e a evitare quella contrazione dell’economia (sudden stop) che tipicamente segue il default.
Ma l’effetto reputazione non durò a lungo. La crisi del rublo e il default della Russia del 1998 misero fine improvvisamente al flusso di capitali internazionali che avevano ripreso ad affluire nella regione, facendo triplicare gli spread. Anche la Colombia non venne risparmiata dal contagio e lo spread schizzò in alto proprio come fece in Argentina, Brasile, Messico, Perù, paesi che avevano fatto bancarotta. Questa storia di ieri suggerisce una lezione per chi aspira oggi a succedere a Draghi alla guida del paese. Meglio non riposare troppo sugli allori della credibilità dell’ex governatore della Bce: se il problema del debito e quello connesso della crescita non saranno affrontati presto e in modo risolutivo, contare sulla benevolenza dei mercati ancora a lungo potrebbe rivelarsi illusorio.
Matilde Faralli è docente all'Imperial College di Londra. Paolo Manasse è docente all'Università di Bologna