L'intervento
Il debito è sostenibile solo con le riforme. Brunetta ci spiega la linea Draghi
Spesa “buona” e taglio delle tasse, revisione del fisco che ci renda più europei. Ovvero le misure per la crescita e la crescita per cambiare l’Italia. Ci scrive il ministro per la Pubblica amministrazione
Una tempesta in un bicchier d’acqua. Per davvero oppure no, uno dei partner del governo, la Lega, diserta il Consiglio dei ministri sul disegno di legge delega fiscale perché non ci sarebbe stato il tempo utile per studiare gli articoli della riforma del fisco. Una polemica che crea qualche fibrillazione politica, ma che certo non mette in discussione i tempi delle riforme del governo Draghi. Riduzione delle variazioni eccessive (salti) tra le varie aliquote Irpef, semplificazione dell’Ires, razionalizzazione dell’Iva al fine di ridurre l’evasione, riordino della giungla normativa e modernizzazione del catasto. Chiaro, ancora una volta, il messaggio del presidente Draghi: la riforma “non intende aumentare, ma diminuire il gettito complessivo”. Una riforma fiscale a favore di cittadini e imprese, dunque. Una riforma per una crescita economica del nostro paese che negli anni a venire dovrà essere sostenuta e duratura. E via così…
L’idea di continuare a sostenere la crescita con azioni espansive di politica economica, del resto, arriva anche dall’Europa. I ministri dell’Economia riuniti nell’Eurogruppo tenutosi in Lussemburgo lunedì 4 ottobre sono concordi nel ritenere che l’attuale rialzo dei prezzi dell’energia, con aumenti a doppia cifra, non avrà effetti permanenti sul tasso di inflazione che, è bene ricordarlo, nell’area euro è atteso salire al +3,4 per cento a settembre, il livello più alto degli ultimi 13 anni. Al contempo, resta evidentemente alta la preoccupazione dei ministri per gli impatti economico-sociali del rialzo dei prezzi energetici che potrebbero colpire cittadini e imprese. L’Eurogruppo, nelle conclusioni del suo presidente, l’irlandese Paschal Donohoe, prevede di tenere conto di questi rischi anche nelle sue azioni di politica di bilancio, ma al fine di garantire che questi non compromettano la ripresa in corso. Dunque, di nuovo centralità del tema crescita e del suo sostegno.
Rischi o, peggio ancora, pericoli che, se non governati adeguatamente, potrebbero minare il quadro macroeconomico delineato nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef). Come indicato nella Nadef, con un pil che salirà ben al di sopra delle nostre medie da zero virgola pre-Covid, avremo un rapporto debito/pil che tornerà sul sentiero virtuoso della decrescita, attestandosi al 149,4 per cento nel 2022, al 147,6 nel 2023 e al 146,1 nel 2024. Uno scenario, quello della Nadef, che dovrà essere confermato già nella prossima Legge di bilancio. Occorre agire per mettere in sicurezza la crescita economica, concentrando le risorse disponibili principalmente nel taglio delle tasse, per sostenere famiglie e imprese. Crescita, e riduzione del debito, che potrebbero addirittura accelerare ancor di più rispetto allo scenario presentato nella Nadef, perché, grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), gli investimenti e le riforme che saranno messi in campo, secondo un cronoprogramma ben definito con la Commissione Europea, daranno stabilità all’azione politica, che è il presupposto della stabilità delle aspettative e del loro orientamento in un senso favorevole alla crescita economica. Ne consegue che il nostro debito pubblico risulta essere più sostenibile. Andiamo a vedere perché.
Cosa si intende esattamente per sostenibilità del debito pubblico? Secondo una definizione del Fondo Monetario Internazionale comunemente accettata, un debito pubblico si definisce sostenibile se “uno Stato è in grado di far fronte alle proprie obbligazioni presenti e future senza dover richiedere assistenza finanziaria o incorrere in una situazione di default”. Finora, il Tesoro italiano ha sempre onorato puntualmente tutte le proprie scadenze finanziarie. L’incertezza, quindi, riguarda soltanto le scadenze future. Per poter capire se e quanto il debito italiano è sostenibile, è necessario ricorrere a delle complesse analisi finanziarie, studiare la struttura del debito nelle sue diverse variabili (composizione, maturity media, rendimenti, etc.) e formulare delle ipotesi sugli scenari macroeconomici futuri. Un lavoro estremamente complesso.
In macroeconomia, l’espressione che si usa per valutare la sostenibilità del debito pubblico di un Paese è il cosiddetto “snowball effect”, ovvero la differenza tra il tasso di crescita nominale del pil (dato dalla somma tra il tasso di crescita reale e il tasso d’inflazione) e il tasso d’interesse implicito del debito, identificabile solitamente nel rendimento medio. Per semplificare l’analisi, alcuni economisti hanno formulato delle teorie che utilizzano implicitamente lo “snowball effect”. Una delle più quotate è quella della “stagnazione secolare”, proposta nel 1938 dall’economista Alvin Hansen e sviluppata in seguito da numerosi economisti, la quale ipotizza l’assenza “secolare”, o di lungo periodo, di crescita dell’economia, dovuta a una assenza cronica della domanda. Secondo questa teoria, se l’economia si trova in una situazione di sottoccupazione secolare, la stagnazione fa in modo di evitare l’aumento dell’inflazione, contribuendo a tenere basso il livello di crescita nominale del pil. Proprio l’assenza di inflazione consente alle banche centrali di mantenere i tassi d’interesse permanentemente bassi, creando spazi per lo sviluppo di politiche di bilancio basate sulla spesa in deficit.
Tale teoria, che ha iniziato a prendere piede nel nuovo Millennio, grazie ai contributi di Larry Summers e Oliver Blanchard, è oggetto di discussione, anche per effetto dei risvolti dell’attuale crisi pandemica. Negli ultimi anni, in molti si erano illusi che l’inflazione non avrebbe più rappresentato un problema per l’economia internazionale. Con la recrudescenza inflazionistica in corso, tuttavia, l’ipotesi di una crescita che possa avvenire a “inflazione zero” per un prolungato periodo di tempo pone delle obiezioni alla teoria stessa. Negli ultimi mesi, infatti, la fiammata sui prezzi, in particolare quella che sta riguardando i beni energetici, sta dimostrando che l’ipotesi della bassa inflazione permanente è, quanto meno, da mettere in discussione. Certamente, si potrebbe sostenere che un aumento dell’inflazione, a conti fatti, giova alla sostenibilità del nostro debito pubblico, dal momento che “gonfia” il pil nominale e riduce, di conseguenza, il rapporto debito/pil. Ma è altrettanto vero che quella che stiamo osservando è inflazione importata dall’estero e questo tipo di inflazione non fa bene all’economia perché riduce il potere d’acquisto di famiglie e imprese, costringendole a ridurre i loro consumi e gli investimenti e provocando, come effetto finale, una caduta del pil. L’effetto netto potrebbe essere, quindi, negativo, e potrebbe mettere un freno all’eccezionale ripresa in corso.
Ma c’è un’altra considerazione da fare. Se è vero, infatti, che l’Italia ha un enorme problema di debito pubblico (ma su questo è in buona compagnia con Francia, Spagna e Belgio), è altrettanto vero che il nostro Paese può vantare un surplus commerciale invidiabile, derivante dall’elevato export del suo made in Italy, che è in grado di fare affluire dentro i confini nazionali ingenti risorse finanziarie. Una condizione, quella del surplus commerciale, che rende il profilo della nostra economia più simile a quello dei “virtuosi” Paesi del Nord (Germania e Olanda su tutti) che non a quello dei Paesi dell’area mediterranea, come Francia, Spagna, Grecia e Portogallo. Un dato, quello del surplus commerciale italiano, che è migliorato progressivamente negli ultimi anni, se si pensa che soltanto nel 2008 il nostro Paese registrava un deficit di oltre 78 miliardi di euro, per poi passare al pareggio nel 2013, mentre nel 2019 il saldo aveva assunto un segno positivo, pari a oltre 59 miliardi. In conclusione, mentre, l’Italia deve ripianare soltanto un deficit, quello di bilancio, altri Paesi ne devono ripianare due, quello di bilancio e quello commerciale.
Questi due deficit non sono slegati l’uno dall’altro, ma vincolati da un rapporto di causalità, almeno se si crede alla ipotesi dei “twin deficits” che si studia nella macroeconomia internazionale. Secondo questa ipotesi, il nesso di causalità tra i due deficit esisterebbe in quanto un Paese, che accresce il suo deficit di bilancio, deve necessariamente trovare risorse per finanziarlo e ciò è possibile soltanto in due modi: o incrementando il differenziale tra il risparmio del settore privato e gli investimenti (il che vuol dire che, a parità di risparmio, l’economia di un Paese dovrà subire un calo degli investimenti), oppure aumentando il deficit commerciale. Detto in altri termini, se le risorse generate dal commercio internazionale finanziano il deficit di bilancio, il disavanzo delle partite correnti cresce. Se il deficit di bilancio è, invece, finanziato dal risparmio del settore privato, si crea un effetto spiazzamento degli investimenti, soprattutto in una economia che si trova vicina alla piena occupazione. Per questo motivo, si dice che il deficit pubblico “causa” il deficit commerciale. Da qui l’uso del termine “twin deficits”.
Un altro indicatore che è solitamente utilizzato per valutare la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico è quello della spesa per interessi in rapporto al pil. Tuttavia, prevedere quale sarà la dinamica della spesa per interessi sul debito in un lungo periodo di tempo è difficile, soprattutto perché l’evidenza empirica mostra come questa dinamica sia molto variabile e dipendente dall’andamento dei tassi d’interesse. Per questo motivo, il ritenere che i tassi d’interesse e, di conseguenza, i rendimenti sui titoli di Stato (che ai primi sono correlati) rimarranno ai livelli attuali, cioè pari a zero o negativi, nei prossimi decenni, è pericoloso e fuorviante rispetto alla valutazione della sostenibilità del debito. Nel caso italiano, all’inizio degli anni Novanta, la spesa per interessi pagati sul nostro debito rappresentavano l’11 per cento circa del pil, nonostante il rapporto debito/pil fosse decisamente inferiore a quello attuale. Attualmente, la spesa per interessi ammonta a solo il 3,6 per cento del pil. Ciò significa che oggi il Tesoro paga circa un terzo di quello che pagava nei primi anni 90. Ancora, gli interessi sul debito, sempre nei primi anni 90, rappresentavano ben il 43 per cento del gettito fiscale, mentre oggi questo valore è drasticamente sceso al 14 per cento. Tuttavia, come dicevamo sopra, questi valori dipendono dalla politica monetaria della banca centrale, dall’inflazione e dalla crescita e potrebbero, quindi, tornare a salire in futuro. A fronte di questo rischio, grazie al Next Generation EU, l’Italia nei prossimi anni sarà in parte coperta da questo pericolo perché finanzierà i suoi investimenti e progetti con debito europeo con rating tripla A. Il che ci garantisce che, almeno su questa parte di debito, i costi di emissione rimarranno più bassi relativamente a quelli che potrebbe sostenere il Tesoro per i nostri Btp, anche in caso di aumento dei tassi.
A giustificazione di quanto abbiamo appena scritto, il tasso d’inflazione dell’eurozona è previsto in rialzo e nel mese di settembre è atteso raggiungere il livello massimo degli ultimi tredici anni, al +3,4 per cento. Tredici anni fa, vale la pena ricordarlo, con un livello di inflazione simile a quello attuale, i tassi d’interesse nell’eurozona erano stati fissati dalla Bce al 4 per cento. Nel caso in cui dovessero tornare a quel livello, la spesa per interessi tornerebbe subito a crescere, per tutti i Paesi europei, considerando, tra le altre cose, che lo stock di debito e l’ammontare di titoli da emettere anno per anno (roll-over) è, rispetto a tredici anni fa, di molto aumentato (sempre per tutti i Paesi europei). In questa eventualità, l’utilizzo del criterio del costo del servizio del debito in rapporto al pil può essere controproducente.
Occorre ricordare, inoltre, che il Tesoro, negli ultimi anni, ha sfruttato ottimamente l’occasione offerta dalla politica dei bassi tassi d’interesse praticata dalla Banca Centrale Europea per allungare la duration del nostro debito a circa 7 anni, contro i circa 3 anni dei primi anni 90. Questa scelta di debt management è stata fondamentale per la nostra finanza pubblica, perché ha portato la scadenza media dei nostri titoli di Stato a circa 7 anni, cosicché il nostro debito è ora in grado di subire meno, dal punto di vista del costo finanziario, le conseguenze di shock avversi, quali l’aumento dello spread e dei tassi d’interesse. Tutto questo contribuisce a rendere più sostenibile il nostro debito pubblico. Infine, se consideriamo, poi, il debito del settore privato italiano, esso, contrariamente a quello del settore pubblico, è ben al di sotto della media europea. Più nello specifico, il debito privato delle famiglie italiane è stato pari, nel 2019, al 41 per cento del pil, mentre quello delle aziende italiane al 70 per cento del pil. Tanto per fare un paragone, gli stessi valori relativi all’Olanda sono pari al 102 e 169 per cento, rispettivamente. Decisamente molto più alti. L’avere a disposizione un basso debito privato, accoppiato ad uno stock crescente di risparmio privato, è indubbiamente da considerare come un ulteriore elemento di sostenibilità del debito pubblico.
È utile, allora, tradurre le semplici relazioni di contabilità pubblica descritte sopra in chiave di politica economica. Se l’Italia continuasse a consolidare le proprie finanze pubbliche, riprendendo il percorso virtuoso iniziato diversi anni fa con il raggiungimento di significativi surplus primari e che, prima della crisi da pandemia, l’aveva portata vicina al raggiungimento del pareggio di bilancio, la sua economia potrebbe registrare un surplus commerciale ancora più elevato. Oppure, a parità di questo, potrebbe aumentare i propri investimenti interni (spesa buona), che poi rappresentano la base per aumentare la produttività dell’economia e, quindi, il pil. Un pil più alto vuol dire un rapporto debito/pil più basso.
Alla luce delle incertezze e dei rischi che l’economia dell’eurozona sta affrontando occorre, quindi, mettere in sicurezza la crescita usando al meglio tutte le risorse disponibili e accelerare sulle riforme. Due facce della stessa medaglia: le riforme corrono se l’economia cresce, altrimenti prevale la paura del cambiamento, l’immobilismo. Stando agli ultimi rilevamenti effettuati dalla Ragioneria Generale dello Stato, emergerebbe, nelle pieghe del bilancio statale, un maggior spazio fiscale per 3-4 miliardi di euro, dovuto tanto al maggior gettito fiscale, quanto al minor tiraggio della spesa relativa ad alcune politiche di sostegno al reddito introdotte per fronteggiare la crisi pandemica. Queste risorse inaspettate si sommerebbero ai 22 miliardi a disposizione del Governo per la prossima Legge di Bilancio e vanno restituite a famiglie e imprese, senza sprecarle in spesa “cattiva”, ma concentrandole tutte nel taglio delle tasse. Fare una politica di front-loading quest’anno per ridurre ampiamente il cuneo fiscale, la policy ritenuta dal Fondo Monetario e dalla Commissione Europea come la più favorevole alla crescita duratura del pil, il miglior esempio di spesa “buona”. Di pari passo con la Legge di bilancio, usiamo, dunque, bene i diciotto mesi di tempo per completare la riforma fiscale con la scrittura dei decreti delegati per una revisione del fisco italiano che ci renda più europei, moderni ed efficienti. Insomma, le riforme per la crescita e la crescita per cambiare l’Italia. Altra storia non c’è.
sindacati a palazzo chigi