il giorno del decollo
Ita nasce senza grandi ambizioni, ma con una speranza: Lufthansa
Il nuovo vettore statale nel solco di Alitalia difficilmente starà in piedi da solo. Il piano del governo è un altro: una "compagnia ponte" che minimizzi le perdite per prendere tempo e convincere i tedeschi a comprare
“Ita deve produrre valore nel tempo e deve essere profittevole e redditizia. Il piano industriale è improntato a una logica esclusivamente industriale e di mercato”, ha dichiarato giorni fa la viceministra dell’Economia Laura Castelli lanciando la compagnia statale erede di Alitalia, che chiude i battenti dopo 75 anni. Non sono frasi particolarmente nuove. Come un rito accompagnano, ormai da un quarto di secolo, ogni nuovo salvataggio.
Il primo risale al 1997, anno della liberalizzazione del trasporto aereo: la Commissione Ue autorizzò un aiuto di stato da quasi 3 mila miliardi di lire a patto che “sia una tantum (on a first time last time basis) e che non siano concessi ad Alitalia ulteriori aiuti sotto qualsiasi forma”. Non è andata così. Da allora Alitalia è sempre stata in perdita, tranne nel 2002 quando l’olandese Klm preferì pagare 150 milioni di euro di penale pur di non comprarla: gestione statale, privata con i “capitani coraggiosi”, a metà con Ethiad, commissariata... l’Alitalia ha sistematicamente bruciato soldi.
Tentare di renderla profittevole è un po’ come voler raddrizzare le gambe ai cani. E infatti, nonostante le frasi di circostanza, la nuova Ita non nasce per fare profitti, ma con un obiettivo molto meno ambizioso e più realistico: minimizzare le perdite. A differenza dei grandi progetti di ristrutturazione del governo Conte, dall’improbabile integrazione di Alitalia nelle Ferrovie al piano da 3 miliardi previsto dal decreto “Rilancio”, il governo Draghi ha scelto una strategia a più basso impatto economico: 1,35 miliardi di capitale da iniettare in tre anni. Ciò vuol dire una compagnia molto più piccola, con metà della flotta (52 aerei anziché 113) e un quarto del personale (2.800 dipendenti anziché 10.500) – sui 7 mila esuberi, per cui si prevede una cassa integrazione da due a quattro anni, andrebbe aperto un capitolo a parte – e che punta sul mercato domestico ed europeo.
Ma, sebbene le nuove condizioni dovute alla pandemia che vedono il mercato intercontinentale in grande difficoltà e quello domestico in forte ripresa appaiano favorevoli a un progetto del genere, una piccola compagnia aerea come Ita farà molta fatica a stare sul mercato. Da un lato perché subisce la forte concorrenza delle low cost e dall’altro perché ci sono ancora molti nodi irrisolti. A partire dal marchio, che però pare in via di risoluzione: dopo una prima gara andata deserta, partita da una base di 290 milioni di euro, Ita ha offerto ai commissario 90 milioni per acquistare il logo di Alitalia e i domini del sito. Altri problemi riguardano il mercato domestico, quello su cui punta di più la compagnia: gran parte dei voli sono sulla rotta Roma-Milano, quella che più subisce la concorrenza dell’alta velocità. E poi Ita dovrà fare a meno della Sardegna, almeno per i prossimi sette mesi, visto che la gara per le tratte in continuità territoriale de l’è aggiudicata la spagnola Volotea.
E’ chiaro che una compagnia del genere non ha molte possibilità di fare profitti e stare in piedi da sola. Ma, evidentemente, il piano del governo è un altro: perdere non troppi soldi – si spera meno dei 600 milioni l’anno che Alitalia perdeva prima del Covid – e trovare un acquirente internazionale prima che venga bruciato tutto il capitale. Insomma, più che una compagnia aerea Ita è una “compagnia ponte”. Alla riuscita del piano manca però un non trascurabile dettaglio: il compratore. Si punta, o meglio si spera, tutto su Lufthansa. Ma non sarà facile convincere i tedeschi: Ita non sembra essere un boccone appetibile.