L'intervento
Crescete, care imprese. Il discorso del governatore Ignazio Visco
La crescita dell’Italia non dipenderà solo da come lo stato userà i soldi dell’Europa ma anche da ciò che gli imprenditori faranno per innovare le imprese e combattere i nanismi improduttivi. Appello di Bankitalia
Pubblichiamo l’intervento del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco pronunciato ieri nel corso della Giornata mondiale del risparmio
Le politiche economiche attuate da marzo dello scorso anno dal governo, dall’Eurosistema e dall’Unione europea hanno consentito all’Italia di contrastare con ampi mezzi la gravissima recessione causata dalla pandemia e senza ripercussioni sui costi di finanziamento, nonostante i limitati spazi di bilancio disponibili alla vigilia della crisi. Oltre che a potenziare il sistema sanitario, le misure sono state soprattutto indirizzate a salvaguardare i redditi delle famiglie e a garantire la liquidità necessaria alle imprese; hanno tuttavia potuto solo in parte frenare la caduta dei consumi, degli investimenti e della produzione, connessa anche con le restrizioni alla mobilità introdotte per contenere i contagi. Questi andamenti si sono così riflessi in una forte crescita del risparmio, anche se eterogenea e concentrata nelle famiglie meno colpite, a fronte di un consistente aumento del debito pubblico, salito nel 2020 dal 135 al 156 per cento del Pil.
Nel corso di quest’anno, con il successo della campagna di vaccinazione e il perdurante sostegno delle politiche economiche, l’attività produttiva è ripresa a ritmi più elevati di quanto atteso. Anche grazie alla capacità competitiva riconquistata dal Paese negli ultimi anni, le esportazioni hanno beneficiato del deciso riavvio degli scambi mondiali; i consumi delle famiglie sono stati favoriti dal progressivo miglioramento delle condizioni sanitarie; gli investimenti delle imprese hanno mostrato un rafforzamento ciclico ben più marcato che nei più recenti episodi recessivi. Nel 2021 la crescita del prodotto dovrebbe collocarsi attorno al 6 per cento; il rapporto tra il debito pubblico e il PIL si ridurrebbe già quest’anno, con un netto miglioramento rispetto alle previsioni formulate solo pochi mesi fa. È uno scenario che resta fortemente dipendente dal mantenimento di un sostanziale sostegno da parte delle politiche economiche che, rispetto alla fase di emergenza, può essere più mirato e soprattutto volto a stimolare il potenziale di offerta dell’economia.
Si tratta di sviluppi che inducono a un cauto ottimismo sulla velocità di uscita dalla crisi e che prefigurano un rapido recupero dei livelli di attività pre-pandemici, pur se con non trascurabili differenze settoriali e distributive. Pesano tuttavia rischi di natura globale connessi, in particolare, con i ritardi nell’andamento delle vaccinazioni in molti paesi emergenti e in via di sviluppo. Sono emerse inoltre, anche nell’area dell’euro, difficoltà nell’approvvigionamento di materie prime e di beni intermedi, in parte dovute proprio alla rapidità della ripresa, con forti aumenti nei prezzi dell’energia, in particolare del gas. Gli effetti delle strozzature di offerta, che cominciano a sentirsi anche in Italia, sono da valutare come temporanei, anche se potrebbero pesare sulla produzione e sui prezzi più a lungo di quanto inizialmente atteso.
Per il nostro paese un ritorno ai livelli di attività registrati alla vigilia dello scoppio della pandemia non costituisce un obiettivo sufficiente. La crisi lo ha infatti colpito quando non erano ancora stati riassorbiti gli effetti della doppia recessione dovuta alla crisi finanziaria globale e a quella dei debiti sovrani, precedute da un lungo periodo di bassa crescita. Tra il 2007 e il 2013 la caduta del PIL aveva raggiunto l’8,5 per cento e il successivo recupero era stato molto lento. Nel 2019 il prodotto era ancora quasi 4 punti percentuali più basso che nel 2007; l’occupazione era risalita ai valori del 2007 solo grazie a una forte espansione degli impieghi a tempo parziale; i divari territoriali erano tornati ad ampliarsi. Il ristagno della produttività osservato dalla metà degli anni Novanta, la doppia recessione e la modesta successiva ripresa hanno così determinato un arretramento rispetto agli altri paesi avanzati: il prodotto pro capite, che nel 1995 era circa 10 punti percentuali più elevato della media dei 19 paesi che attualmente appartengono all’area dell’euro, nel 2019 era di quasi 10 punti più basso della media di quegli stessi paesi.
(…) Negli anni che hanno preceduto la crisi sanitaria che ci ha così fortemente colpito non sono mancati miglioramenti di rilievo nell’allocazione delle risorse, nelle condizioni finanziarie delle imprese e delle banche, nella competitività delle aziende sui mercati internazionali, anche a seguito dell’uscita dal mercato di quelle più deboli. Tali sviluppi hanno accresciuto la capacità del sistema produttivo di resistere agli shock, ma non sono stati sufficienti a rilanciare la crescita della produttività. Tra i fattori più rilevanti nello spiegare la modesta ripresa intercorsa tra il 2014 e il 2019 vi sono sicuramente le insufficienze nell’accumulazione di capitale, su cui pesano irrisolti problemi strutturali. Dopo il crollo di poco meno del 30 per cento registrato tra il 2007 e il 2013, nel 2019 gli investimenti lordi erano ancora di circa il 20 per cento inferiori ai livelli del 2007; in rapporto al PIL essi erano di 4 punti percentuali più bassi della media dell’area dell’euro. Oltre a comprimere la domanda interna, la debolezza degli investimenti ha frenato l’ammodernamento tecnologico e infrastrutturale. Ciò ha ridotto i margini per la crescita dei salari, dei redditi e dei consumi privati. Ha inoltre ostacolato la discesa del peso del debito pubblico sul PIL che, dopo essere cresciuto di quasi 30 punti percentuali tra il 2007 e il 2013, al 132 per cento, si è poi stabilizzato intorno al 135 per cento fino al 2019.
(…) Dallo scoppio della pandemia i depositi di famiglie e imprese presso le banche sono aumentati di oltre 200 miliardi. L’incremento ha riflesso sia le restrizioni alla mobilità imposte per ridurre i contagi, sia la forte incertezza sulle prospettive economiche, fattori che hanno accresciuto il risparmio precauzionale e frenato l’accumulazione di capitale. Parte di questa liquidità diminuirà, fisiologicamente, con il ritorno alla crescita di consumi e investimenti; ne abbiamo visto i primi segnali nei mesi scorsi, con un rallentamento dei depositi e il calo della propensione al risparmio, ancora tuttavia superiore ai livelli pre-pandemici. Tra la fine del 2019 e lo scorso marzo le attività finanziarie delle famiglie sono cresciute di 135 miliardi (di oltre 200 se si tiene conto anche della variazione di valore dei corsi dei titoli). È aumentata in primo luogo la componente dei depositi e del circolante, arrivata a rappresentare circa un terzo del totale, un valore elevato nel confronto storico. Ma sono cresciuti anche gli investimenti in quote di fondi comuni e il risparmio dato in gestione alle compagnie assicurative.
Rispetto alla media europea le famiglie italiane investono in misura minore la loro ricchezza finanziaria in fondi pensione (il 3 per cento contro il 10), allocandone invece una quota maggiore in fondi comuni e in “azioni e partecipazioni” (rispettivamente il 15 per cento contro il 10 e il 21 per cento contro il 18). Solo una piccola parte degli investimenti dei fondi, tuttavia, finanzia imprese residenti: le azioni e le obbligazioni nazionali, infatti, rappresentano il 5 per cento del complesso delle loro attività, a fronte del 34 in Francia e del 14 in Germania. Tra gli investimenti diretti in “azioni e partecipazioni” quelli che riguardano titoli quotati sono pari al 2,4 per cento della ricchezza finanziaria, la metà di quanto si osserva nella media dell’area dell’euro. Sono invece significativi gli investimenti in partecipazioni, tipicamente concentrate in imprese piccole e non quotate. Questa composizione di portafoglio è in gran parte il riflesso della struttura del tessuto produttivo italiano, caratterizzato da numerose aziende di dimensioni contenute in cui spesso la proprietà coincide con la gestione, nonché dal limitato ricorso delle imprese alla quotazione in borsa; da noi il rapporto tra capitalizzazione e prodotto è inferiore al 25 per cento, contro quasi il 100 in Francia, il 50 in Germania, il 40 in Spagna.
La scarsità dell’offerta di strumenti liquidi e negoziabili da parte delle imprese italiane limita il ruolo che il mercato può assolvere per contribuire al finanziamento dell’economia. Un ruolo svolto tipicamente da investitori istituzionali e intermediari quali i fondi comuni aperti, che effettuano le proprie scelte di allocazione del portafoglio sulla base dei principi di diversificazione dei rischi e di pronta liquidabilità delle quote. Affinché il risparmio possa essere efficacemente indirizzato al sostegno dell’attività delle imprese residenti è pertanto necessario agire soprattutto sul fronte dell’offerta di strumenti finanziari. Si amplierebbero così le possibilità di attrarre investimenti di fondi dall’estero, beneficiando anche, in tal modo, degli sviluppi attesi sul fronte della creazione di un autentico mercato unico dei capitali nell’Unione europea.
Nel recente passato sono stati fatti alcuni, modesti, progressi. Sia nel 2019 sia nel 2020, nonostante la crisi, il valore delle obbligazioni emesse dalle imprese italiane, sebbene ancora basso nel confronto internazionale, è stato pari a circa 47 miliardi, contro i 35 della media del quinquennio precedente. Le nuove quotazioni in borsa hanno raggiunto un massimo storico di 33 nel 2019, e si sono riportate a 21 nel 2020, valore comunque in linea con la media 2014-18. Ulteriori, rilevanti, sviluppi restano necessari per accrescere la patrimonializzazione, la dimensione e la capacità di innovare delle imprese. È auspicabile un processo di razionalizzazione degli incentivi fiscali, che sono andati stratificandosi nel tempo, così da garantire a risparmiatori, investitori istituzionali e aziende la necessaria stabilità del quadro di riferimento (…).
Lo scarso ricorso al mercato dei capitali da parte delle imprese ne ostacola il rafforzamento patrimoniale e le espone al rischio di squilibri nella struttura finanziaria. Se la qualità dei prestiti bancari non ha finora risentito della crisi, anche grazie alle misure di sostegno e alla ripresa dell’attività economica, dalla fine del 2019 l’ammontare di finanziamenti per cui le banche hanno registrato un significativo aumento del rischio di credito (quelli classificati nello “stadio 2” della gerarchia prevista dal principio contabile IFRS 9) è tuttavia cresciuto del 40 per cento. È anche alla luce di questi sviluppi che sollecitiamo gli intermediari a continuare a valutare attentamente le prospettive delle imprese affidate e ad effettuare accantonamenti prudenti e tempestivi. L’elevato indebitamento di alcune imprese, specie nei settori più colpiti dalla crisi, potrà rendere necessarie operazioni di ristrutturazione volte a consentire alle aziende in grado di superare le difficoltà causate dalla pandemia di disporre di un adeguato lasso di tempo per far fronte ai propri obblighi. Andranno altresì considerate modalità e condizioni che permettano di trasformare parte dei debiti in capitale di rischio. Nel nostro ordinamento sono presenti diversi strumenti e procedure per la ristrutturazione delle imprese in crisi (piani attestati di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordati preventivi), ma interventi tardivi, costi elevati e lunghezza delle procedure giudiziali ne limitano l’efficacia. (…) Una maggiore differenziazione delle fonti di finanziamento delle imprese, accompagnata da un’efficace tutela dei risparmiatori, e un miglior funzionamento della giustizia civile possono sicuramente favorire l’impiego del risparmio delle famiglie nel sostegno delle attività produttive. Condizione necessaria per attrarre capitali nazionali ed esteri rimane tuttavia l’ulteriore rafforzamento della capacità delle imprese italiane di innovare e crescere.
Nei prossimi anni, fino al 2026, gli investimenti nel nostro paese potranno beneficiare dei fondi del programma Next Generation EU (NGEU), che richiede l’attuazione di riforme e investimenti in grado di mettere le basi per rilanciare lo sviluppo e affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico e dalla rivoluzione digitale. All’Italia sono stati assegnati 205 miliardi: ai 191,5 miliardi del Dispositivo per la ripresa e la resilienza – la componente principale del programma NGEU – si sommano 13,5 miliardi del programma REACT-EU. Si tratta di un quarto degli 807 miliardi stanziati complessivamente dall’Unione europea (750 miliardi ai prezzi del 2018); la quota italiana dei fondi effettivamente impegnati potrebbe essere perfino più elevata dato che non tutti i paesi hanno finora manifestato l’intenzione di utilizzare pienamente i prestiti loro erogabili (i fondi destinati all’Italia ammontano a oltre un terzo di quelli fin qui complessivamente richiesti). Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, definito nell’ambito del programma NGEU, prevede interventi per oltre 235 miliardi: alle risorse europee si affiancano quelle nazionali del Fondo complementare istituito lo scorso maggio (più di 30 miliardi). Il Piano sosterrà la ripresa nel breve termine, ma il suo successo si misurerà dalla capacità di affrontare i nodi strutturali che frenano la crescita e di mobilitare le risorse private che da troppo tempo stentano a trovare impiego nel nostro sistema produttivo.
(…) L’incidenza della spesa pensionistica continuerà a salire nel prossimo ventennio per effetto delle dinamiche demografiche; per la stessa ragione anche la sanità e l’assistenza potrebbero richiedere un’estensione dei servizi offerti. Se il Paese deciderà di mantenere o ampliare il perimetro dell’intervento pubblico, occorrerà assicurare che gli interventi trovino adeguata copertura, evitando di finanziare aumenti permanenti della spesa in disavanzo, come è invece avvenuto in passato. Le condizioni di finanziamento che si attendono ancora distese, unite a una maggiore crescita di lungo periodo, potranno favorire la discesa del peso del debito sul prodotto. Non è però possibile limitarsi a contare su un onere del debito mantenuto indefinitamente sugli attuali eccezionalmente bassi livelli, che riflettono anche l’orientamento straordinariamente espansivo della politica monetaria. Per evitare il riproporsi dei rischi di instabilità sperimentati in passato, superata la crisi sarà necessario accelerare il rientro, anche ricostituendo adeguati avanzi primari.
L’Unione e la Banca centrale europea hanno contrastato la crisi con mezzi e strumenti eccezionali, facilitando anche l’utilizzo di ingenti risorse di bilancio nazionali da parte dei singoli paesi. È stata una risposta ben più incisiva rispetto a quella insufficiente fornita in occasione della crisi finanziaria globale e, soprattutto, della successiva crisi dei debiti sovrani. La pandemia ha tuttavia ulteriormente mostrato i limiti degli attuali assetti europei, che non prevedono una capacità di bilancio comune.
Una tale capacità, sufficientemente ampia e con la possibilità di ricorrere all’indebitamento per finanziare progetti di investimento o l’attivazione di ammortizzatori sociali e programmi di welfare comuni, permetterebbe di affiancare una politica di bilancio europea all’azione della politica monetaria nel contrasto di shock economici di vasta portata. Il debito europeo rappresenterebbe inoltre uno strumento finanziario sovranazionale con elevato merito di credito, che faciliterebbe la diversificazione dei portafogli degli intermediari e l’integrazione dei mercati dei capitali europei, accrescendo così l’efficacia della politica monetaria.
Per garantire in tempi rapidi liquidità e spessore al mercato di questo nuovo strumento si può pensare a una gestione comune di una parte dei debiti dei singoli paesi attraverso un fondo di ammortamento che ritirerebbe gli strumenti nazionali emettendo titoli europei. Questa parte dovrebbe almeno includere il debito contratto da tutti i paesi membri negli ultimi due anni per far fronte agli effetti della pandemia. I timori che da un tale meccanismo possano conseguire trasferimenti sistematici di risorse a favore dei paesi più indebitati sono comprensibili, ma possono essere fugati con l’adozione di adeguati accorgimenti tecnici.
L’urgenza del momento ha permesso durante la pandemia di superare paure e resistenze. Il programma NGEU ha carattere inedito per dimensione e scopi; è finanziato con debito dell’Unione, garantito dalle sue entrate proprie; è principalmente indirizzato ai paesi in maggiore difficoltà. Ma esso è uno strumento temporaneo; il percorso verso una modifica permanente dell’architettura dell’Unione con la costituzione di una capacità bilancio europea permanente resta tutto da definire. Per questo lo scorso maggio ho ricordato che i paesi che più beneficeranno delle risorse rese disponibili dal programma NGEU hanno una doppia responsabilità, quella di cogliere un’occasione decisiva per avviare a soluzione i propri problemi strutturali e quella di rendere evidente, con risultati concreti, l’importanza di una Unione più forte e coesa, rafforzando la possibilità che si compiano ulteriori passi avanti sul piano delle finanze pubbliche europee.
Il governo programma di utilizzare larga parte dei margini di manovra derivanti dal miglioramento del quadro tendenziale per nuove misure espansive, delineate nel Documento programmatico di bilancio approvato due giorni fa, con effetti in parte permanenti sul disavanzo pubblico. Nei programmi governativi grazie alla più elevata crescita del prodotto il peso del debito diminuirebbe comunque più di quanto si prevedeva solo pochi mesi fa. Se l’andamento dell’economia continuerà a rivelarsi migliore delle previsioni sarà importante trarne vantaggio per ridurre il disavanzo. Con una gestione responsabile delle finanze pubbliche l’Italia può accelerare la diminuzione del rapporto tra debito e prodotto, contenendo così una fonte rilevante di rischio. Si potrà in questo modo dimostrare che un temporaneo e ampio sostegno all’economia favorito da politiche comuni, se ben indirizzato a rimuovere gli ostacoli alla crescita, non è in contrasto ma può anzi rafforzare la stabilità dell’area dell’euro, con benefici per tutti i paesi membri e in particolare per la nostra società e la nostra economia.