La battaglia che manca in Generali. Parla il prorettore della Bocconi
"Le esperienze di altri paesi ci insegnano che il modello della public company è il più funzionale a una crescita sostenuta perché attira capitali e investitori anche dall’estero. L’Italia dovrebbe credere in questo modello che è nel dna di Generali", dice Stefano Caselli
La battaglia per il rinnovo dei vertici di Generali è entrata in una fase – tra formazione di liste, modifiche di statuto e vecchi e nuovi patti di sindacato – che sta facendo un po’ dimenticare perché è cominciata e quali sono le visioni che si confrontano sul futuro di un’importante istituzione finanziaria dell’Italia. E oggi l’assemblea di Mediobanca, che del Leone è il primo azionista ma è tallonata (a colpi di rastrellamenti di azioni) dai soci “ribelli” Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio, rischia di trasformarsi in un’ulteriore occasione di scontro al di là delle dichiarazioni accomodanti arrivate dall’amministratore delegato Alberto Nagel ieri in occasione dell’approvazione dei conti trimestrali. “Bisognerebbe tornare a ragionare di strategie finanziarie e di che cosa è bene per il paese – dice al Foglio Stefano Caselli, prorettore dell’Università Bocconi – Però in questo momento sarebbe interessante capire meglio quale potrebbe essere l’alternativa all’attuale modello di gestione di un gruppo come Generali. Sono d’accordo che l’Italia abbia bisogno di istituzioni finanziarie sempre più forti. Penso sia auspicabile, ad esempio, una crescita di Unicredit a livello europeo e anche un eventuale ulteriore rafforzamento di Intesa Sanpaolo aiuterebbe in una logica di sostegno all’economia italiana che sta ripartendo. Per il consolidamento bancario vedo, insomma, ampi spazi, anche nel quadro della gestione Mps da parte del governo. Ma la compagnia triestina è già grande, tra le principali in Europa, e quindi se esiste un’idea diversa di crescita, ben venga, ma è ora di metterla a fuoco per poter essere compresa e apprezzata”.
Caselli non entra nel merito delle beghe tra i soci del Leone, anche se da esperto di governance, ma osserva che il ruolo del sistema finanziario sarà fondamentale nell’attuazione del Pnrr. “Le esperienze di altri paesi ci insegnano che il modello della public company è il più funzionale a una crescita sostenuta perché attira capitali e investitori anche dall’estero. L’Italia dovrebbe credere in questo modello che è nel dna di Generali, che mi pare abbia davanti una prospettiva di espansione globale nel settore dell’asset management”. E se, invece, il patto di consultazione Caltagirone-Del Vecchio-Fondazione Crt avesse in mente un disegno un po’ più innovativo, trasversale e domestico? Il patto ha raggiunto il 13,4 per cento del capitale della compagnia triestina, sorpassando la quota di Mediobanca (12,8 per cento), la quale, però, si è assicurata diritti di voto sopra il 17 per cento proprio per avere in mano le carte nella prossima assemblea di aprile e confermare l’attuale modello di gestione, con o senza Philippe Donnet alla guida. D’altronde, La creazione di un campione italiano bancario-assicurativo resta in Italia una sorta di sogno proibito. L’ultima volta che questa ipotesi ha suscitato un dibattito pubblico è stato nel 2009. In quell’occasione, il Financial Times, con un editoriale a firma di Paul Betts, stroncò l’ipotesi di una possibile fusione tra Unicredit, Mediobanca e Generali riportata dalla stampa italiana. La crisi finanziaria, questa era la tesi dell’articolo che trovò ampio consenso, avrebbe dovuto insegnare quanto fosse pericoloso mescolare insieme business diversi tra loro. Insomma, la creazione di un colosso finanziario tricolore era “discutibile” in ragione dei rischi che queste unioni comportano pur nella consapevolezza che ci sarebbe stato bisogno di grandi gruppi per sostenere la crescita industriale italiana. Da allora sono passati 12 anni. E’ ancora un tabù parlarne? “A questa possibilità credo poco – ribatte il prorettore della Bocconi – ed è tutto da dimostrare che ci sarebbe una crescita di valore per gli azionisti. E poi chi darebbe a Generali i soldi per un salto dimensionale? Sono tutti gli attuali soci pronti per gli aumenti di capitale necessari a realizzare operazioni di tale portata? Questo è il vero punto”. Insomma, se la battaglia per il controllo di Generali nasce come contrapposizione a una gestione troppo orientata alla redditività e meno al dinamismo imprenditoriale, mancano gli elementi per innamorarsi della proposta alternativa che potrebbe dare quella scossa positiva di cui si dice il capitalismo italiano abbia bisogno. Caltagirone e Del Vecchio: forse è arrivato il momento di battere un altro colpo.