(foto Ansa)

Come migliorare il Reddito di cittadinanza

Stefano Sacchi

Le modifiche del governo sono il primo passo per un sussidio che non sia più ostile al lavoro

Il dibattito sul Reddito di cittadinanza (Rdc) si è avviluppato in dispute sui percettori che non ne avrebbero diritto e sulla riduzione del numero di offerte congrue legittimamente rifiutabili. Si perde così di vista il cuore del problema: il rapporto strutturale del Rdc col mercato del lavoro, messo in luce da Luciano Capone sul Foglio (28 ottobre) e dall’Alleanza contro la povertà in un position paper a inizio ottobre. Solo il 40% dei beneficiari attuali del Rdc è attivabile, e di questi la metà non ha un’occupazione da almeno tre anni e un terzo non l’ha mai avuta. Però se anche volessero cercare un’occupazione, il disegno del Rdc frustrerebbe le loro aspirazioni. Chi trova un lavoro dipendente durante la fruizione del Rdc perde inizialmente 80 centesimi di euro di sussidio per ogni euro guadagnato, poi addirittura un euro per un euro. Le regole per i lavoratori autonomi sono diverse, ma la logica è la stessa: lavorare non paga. Inoltre, il reddito da lavoro viene conteggiato per intero nel calcolo della soglia di reddito famigliare che consente l’accesso alla misura. Assieme alla scala di equivalenza “piatta”, che penalizza le famiglie numerose, ciò riduce la capacità del Rdc di funzionare come complemento al reddito di lavoratori a basso salario. Queste limitazioni, che allontanano i percettori di Rdc dal mercato del lavoro, non derivano da come è stato attuato: sono vizi di disegno. Nella legge di Bilancio viene corretta la prima stortura: chi trova un’occupazione alle dipendenze durante la fruizione del Rdc avrà sempre uno “sconto” del 20%. Restano però le differenze tra dipendenti e autonomi e resta la penalizzazione all’ingresso. Soprattutto: un’aliquota marginale dell’80% è ancora troppo elevata.

Vi è chi, considerate le caratteristiche dei beneficiari attuali, considera futile ogni tentativo di raccordo col mercato del lavoro. Troppa la loro distanza da questo: occorre farsene una ragione e concentrare gli sforzi in percorsi di inclusione sociale, o lavori socialmente utili. Tracce di questa impostazione iperrealista sono talvolta rintracciabili nelle scelte di politica del lavoro sin qui attuate dal governo Draghi. Il programma Gol rinuncia a misure nazionali omogenee come avrebbe potuto essere un assegno di ricollocazione ben ridisegnato, per trasferire risorse alle regioni, le stesse che hanno attivato, ad aprile 2021, ben 266 assegni di ricollocazione per i percettori di Rdc, uno ogni oltre 4 mila aventi diritto. Un ritorno al passato, prima della barbarie del Jobs Act, quando i luoghi di elezione delle politiche attive non erano Copenaghen o Stoccolma, ma Caltanissetta e Crotone. E infatti Gol prende a modello i successi del programma Garanzia Giovani, per il quale a due anni dal termine le regioni hanno speso la metà delle somme disponibili.

Nel post-pandemia potrebbero fare il loro ingresso tra i percettori di Rdc nuove categorie, molto più vicine al mercato del lavoro dei beneficiari attuali. L’incremento nel lavoro da remoto e nell’uso del commercio elettronico può avere un forte impatto su servizi low-skilled dai quali ci si attendeva una sostenuta crescita occupazionale. L’Alleanza contro la povertà stima che la platea potenziale di beneficiari possa aumentare dell’8,6%, pari a 160 mila famiglie. I nuovi beneficiari sono più giovani dei precedenti, di più al centro e al nord. Il 64% dei nuovi nuclei beneficiari contiene al proprio interno almeno un lavoratore autonomo, a fronte del 15% nella platea precedente. Rispetto a oggi, i nuovi beneficiari potenziali lavorano molto più di frequente nei settori del commercio, della ristorazione e alberghiero. 

Occorre allora intervenire lungo due assi: introdurre percorsi di riqualificazione professionale per i nuovi beneficiari, e agire sul disegno del Rdc per rendere il lavoro conveniente. Ridurre l’aliquota marginale all’80% non basta. Serve far funzionare il Rdc come in-work benefit. In Francia, il Prime Activité fornisce ai percettori dello schema di reddito minimo (Revenue de Solidarité Active) che lavorano e ai lavoratori a basso reddito una prestazione aggiuntiva, che prima aumenta poi si riduce col reddito, sino ad annullarsi in corrispondenza di 1,4 volte il salario minimo (o importi equivalenti per i lavoratori autonomi). Per un percettore medio, il sussidio si riduce di soli 39 centesimi per ogni euro di reddito da lavoro ottenuto. L’Alleanza contro la povertà ha proposto un’aliquota marginale del 60%, ma occorre comunque disegnare uno schema che tenga conto del reddito complessivo. In Italia non c’è il salario minimo, ma ci sono le soglie di esenzione fiscale, alle quali potrebbe essere ancorato un simile schema, in connessione alla riforma fiscale. La modifica introdotta in legge di Bilancio non può che essere un primo passo. Solo così si uscirà dalle narrazioni contrapposte che inquinano il dibattito su una misura necessaria per la coesione sociale, ma allo stato attuale ostile all’occupazione. 

 

Stefano Sacchi insegna al Politecnico di Torino

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