C'è un legame tra gas e burocrazia che aggrava i problemi energetici dell'Italia
Se i rubinetti dall'estero vengono chiusi, il nostro paese piange un po' di più. Puntare sulle rinnovabili è la sfida del futuro, ma secondo gli esperti servono le riforme
La crisi energetica evidenzia uno dei vecchi problemi dell’Italia: l’incapacità di attrarre investimenti. Un’incapacità che impedisce al nostro paese di imprimere una svolta anche sulle rinnovabili. Simone Tagliapietra, economista presso il think thank economico Bruegel e docente all’università Cattolica del Sacro Cuore e a SAIS Johns Hopkins, spiega al Foglio come “a Roma e a Madrid la crisi è più grave proprio perché entrambe dipendono molto dal gas”. Nonostante i tanti investitori che vogliono puntare sulle fonti rinnovabili, “le aste sono poco interessanti perché i tempi della burocrazia, dei processi e delle procedure amministrative per mandare avanti i programmi sono lentissimi. Serve potenziare il ruolo delle rinnovabili, aumentarne l’efficienza energetica. Questo è il vero motore del cambiamento nel lungo periodo: meno dipendiamo dall’estero, meglio è”. A Palazzo Chigi sanno che si tratta di un fenomeno che necessita di risorse. Tante. E infatti la nuova legge di bilancio 2022 metterà a disposizione – per dirla con le parole del presidente del Consiglio, Mario Draghi – “circa 540 miliardi di euro in investimenti per i prossimi 15 anni che sono diretti verso il miglioramento delle infrastrutture, la transizione digitale e quella ecologica”. Oltre a “2 miliardi di euro per contenere l’aumento dei costi dell’energia”, ha aggiunto il ministro dell’Economia, Daniele Franco. Il quale, di concerto con Draghi, ha deciso di puntare su questa rivoluzione, considerata la più innovativa del nuovo secolo.
Secondo il Super-Index Aibe, realizzato in collaborazione con il Censis, in tema di attrattività l’Italia si colloca al nono posto su diciotto paesi del G20 considerati: “Posizione di metà classifica – specifica l’istituto di ricerca socio-economica – che non significa sufficienza”. A pesare, in particolare, le criticità sul fisco (17° posto), sulla capacità di fare business (12° posto), sugli investimenti diretti esteri (12° posto) e sulla quota di popolazione in età lavorativa (15° posto). E intanto, circa il 50 per cento dell’energia elettrica prodotta nel nostro paese dipende proprio da quel gas naturale che dobbiamo pianificare di abbandonare, le cui importazioni, secondo i dati del ministero della Transizione Ecologica, sono aumentate tra gennaio e agosto 2021 (rispetto allo stesso periodo nello scorso anno) del 7,7 per cento, a differenza della produzione nazionale, che è calata del 20,6 per cento. Importazioni di cui non potremmo fare a meno, considerando che circa due terzi del nostro fabbisogno energetico dipendono da esse: siamo il quarto paese dell’Unione europea (Ue), dopo Malta, Lussemburgo e Cipro, per dipendenza energetica da fonti straniere (dati Eurostat).
Nello specifico, e in ordine, secondo i dati del ministero aggiornati a settembre, importiamo gas dalla Russia (47,45 per cento), dall’Algeria (33,53 per cento), dall’Azerbaijan, che tramite il gasdotto trans-adriatico (Tap), dal confine greco-turco e fino alla provincia di Lecce, fornisce il 10,7 per cento dell’intero import, dalla Libia (5,37 per cento), da Olanda-Norvegia (2,87 per cento) e da altri paesi (tra cui la Slovenia) che rappresentano lo 0,08 per cento dell’approvvigionamento totale. Tra gennaio e agosto 2021, le importazioni dall’Algeria sono cresciute, rispetto allo stesso periodo nello scorso anno, del 142,7 per cento (quasi il triplo), mentre sono crollati i rifornimenti dal Nord Europa (-85,8 per cento). La crisi energetica, appunto. Rispetto al 2020, il vecchio continente può contare sul 25 per cento di gas in meno. E i tentativi di rimpinguare le riserve si sono scontrati con la scarsa disponibilità: “I Paesi Bassi, i produttori più importanti in Europa, hanno tagliato le forniture a causa dei terremoti. Da diversi anni hanno problemi con i siti di produzione, soprattutto a Groningen, il principale. Avevano già iniziato a diminuire la produzione di gas in modo fortissimo, arriveranno presto a fermarla. La Norvegia ha avuto difficoltà con il mantenimento della sua infrastruttura. Il che ne ha limitato la capacità di esportazione”, spiega Tagliapietra. Poi c’è il nodo Russia, che ha ridotto l’invio dei volumi in seguito a un calcolo preciso: sfruttare la propria posizione di principale fornitore di gas per accelerare il processo di certificazione del Nord Stream 2, il controverso gasdotto che, passando sotto il Mar Baltico, arriva in Germania. Processo che, a oggi, è ostaggio dei veti di Bruxelles e Berlino. Un passaggio che ha fatto irritare Mosca, e non poco.
C’è chi pensa, però, che in una realtà come l’Italia, dove la domanda è ancora rilevante, fare a meno del gas è impossibile. E’ il caso di Luca Schieppati, managing director del Tap, che al Foglio racconta come “quello verso la transizione ecologica sia un percorso fondamentale, ma che compierlo senza usare questa fonte sia difficile. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello paradossale di continuare a sfruttare il carbone”. Altro tema cruciale, le infrastrutture. “Quella a gas di oggi – prosegue – domani potrà essere ricertificata e riadattata per trasportare miscele di idrogeno con gas: anche il Tap potrebbe accogliere flussi di idrogeno nel proprio asset, è un’ipotesi allo studio”. Ciò che al momento è molto improbabile, per Schieppati, è pensare a un’elettrificazione totale: “Ci sono settori a cui il gas serve. La loro transizione verso idrogeno e biometano sarà graduale. Occorre avere le infrastrutture, questo è fondamentale. E non dimentichiamo che il gas aiuta a raggiungere gli obiettivi italiani in Europa: dà un contributo sostenibile, progressivo e senza shock o volatilità alla transizione ecologica. Bisogna accompagnare il percorso in modo sostanziale, non demagogico”.
In occasione dell’ultimo Consiglio europeo, l'Europa non ha però saputo approntare una strategia comune per contrastare i rincari dei prezzi energetici. Secondo Tagliapietra, “c’è poco che Bruxelles possa fare nel breve periodo, perché le azioni da intraprendere per calmierare i prezzi sono misure di carattere fiscale di competenza esclusiva dei paesi membri. In Italia, si agisce sulle tasse piuttosto che sui costi di sistema, mentre la Francia con gli energy vaucher può dare compensazioni dirette ai cittadini”. Da qui, l’importanza degli investimenti e della capacità di attrarli. “Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – continua l’economista di Bruegel – è un elemento importantissimo, specie per noi che ne siamo i maggiori beneficiari: permette di avere importanti fondi pubblici che possono fare da volano per gli investimenti privati. Ma non è sufficiente di per sé: bisogna far sì che le imprese investano. L’aspetto più significativo del programma sono le riforme, non i soldi: quelle della giustizia e della semplificazione burocratica sono imprescindibili perché vanno ad agire sui veri motivi per cui la gente non investe qui. Complici i bassi tassi di interesse, molti vorrebbero investire nel nostro paese. Però dobbiamo permetterglielo, altrimenti guarderanno altrove”. Un’altra tegola su una ripresa economica che rischia di essere fragile e disomogenea.