Ha ragione il principe Carlo: la svolta sul clima passa dai privati
Il green è diventato mainstream: ormai è impossibile presentarsi sul mercato se non come verdi, digitali e responsabili. E quella ambientale è una rivoluzione che vede l'Italia in corsa verso i primi posti tra le nazioni più sostenibili, soprattutto per via del suo tessuto produttivo
Parole? No, non sono vuote parole, sono fatti concreti e consistenti. Il colosso chimico americano DuPont tra i primi al mondo ha deciso di cambiare pelle e sta trattando l’acquisto della Rogers specialista in apparecchiature elettroniche. Lo ha pubblicato oggi in esclusiva il Wall Street Journal. Non c’è paragone tra le due aziende, la DuPont vale in borsa 37 miliardi, Rogers solo 4, ma ha tutto quello che serve per lanciarsi nella nuova frontiera dell’auto elettrica. Non che la prima sia a digiuno di materiali innovativi ad ampio utilizzo industriale, si pensi a fibre come il Kevlar ad alta resistenza, serve soprattutto per i giubbotti anti-proiettile, ma non solo. Tuttavia con la Rogers può arrivare un salto di qualità. Già sei anni fa la DuPont si è scissa in tre grandi rami: quello tradizionale, la scienza dei nuovi materiali e i prodotti per l’agricoltura. Adesso arriva una quarta gamba destinata, così pensa il top manager Edward Breen, a un grande futuro. La mobilità elettrica non è più solo una scommessa. La transizione è partita e guai a chi non cavalca la tigre. Il green è diventato mainstream, scrive il Financial Times, è ormai impossibile presentarsi sul mercato se non come verde, digitale e responsabile.
Tutti sul treno del climate change, dice Jane Fraser che guida Citigroup la più grande banca mondiale, altro che bla bla, son dollaroni sonanti. “Il denaro non manca”, ha ribadito Mario Draghi a Glasgow, caricando il bazooka verde, e lo stesso ha fatto il principe Carlo, a Roma, auspicando una “vasta campagna in stile militare per schierare la forza del settore privato globale con i trilioni di miliardi a loro disposizione”. La chiave è il privato, già. Il Wall Street Journal ha raccolto testimonianze le più varie: da United Airlines a Microsoft, da Rio Tinto (il gigante delle miniere) a Suntory (bevande), da Mondelez (biscotti) a Ikea e Siemens. I grandi capi di questi colossi spiegano come stanno plasmando le loro imprese, è una rivoluzione, non un pranzo di gala, emergono contraddizioni, ostacoli, difficoltà, il ritmo dell’occidente è più veloce di quello asiatico, il passaggio dall’economia verticale all’economia circolare richiede tempo.
L’Italia corre non rincorre e ha raggiunto posizioni di testa in alcuni campi importanti. Nell’economia circolare, ad esempio, con un riciclo sui rifiuti urbani e speciali del 79,4% già nel 2018. Un risultato ben superiore alla media europea (49%) e a quella degli altri grandi Paesi come Germania (69%), Francia (66%) e Regno Unito (57%) con un risparmio annuale pari a 23 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e a 63 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 nelle emissioni. E’ confermata la leadership nella riduzione di materie prime per unità di prodotto (-44,1% di materia per unità di prodotto tra 2008 e 2019). La filiera del legno arredo ricicla il 95% del materiale con un minor consumo di quasi 2 milioni di tonnellate l’anno. L’Italia è in testa nel biologico (sono impegnate oltre ottantamila imprese con una superficie coltivata aumentata del 79% negli ultimi dieci anni), ed è tra i primi paesi al mondo nella biochimica per prodotti biodegradabili e compostabili sempre più utilizzati dall’agricoltura alla cosmesi. E le rinnovabili? Nel 2020 sono stati segnati nuovi record di potenza rinnovabile, pari all’83% della crescita dell’intero settore elettrico. Il 37% dei consumi è stato coperto da fonti rinnovabili, con una produzione di circa 116 TWh, anche se la potenza installata è ancora distante dalla neutralità climatica prevista per il 2030. Alla fine del 2020 erano in esercizio circa 950.000 impianti per una potenza complessiva di oltre 56 GW; quasi 936.000 sono fotovoltaici.
La pandemia è stata un acceleratore drammatico quanto formidabile, tuttavia il cambiamento era già cominciato. Sono 441mila le imprese che negli ultimi cinque anni hanno deciso di investire sulla green economy, il 31,9% nell’industria e nei servizi in genere e il 36,3% nella manifattura che ha puntato su prodotti e tecnologie verdi. Ma la vera sorpresa è che grazie a questo spostamento in prodotti e settori nuovi le aziende hanno aumentato il fatturato: ci si attende un più 14% quest’anno, 5 punti oltre la media, secondo il rapporto GreenItaly, realizzato dalla Fondazione Symbola e dall’Unioncamere. Gli esempi sono davvero molti. Nella componentistica auto, uno dei settori maggiormente esposti, un’impresa come la Brembo punta a mantenere il suo ruolo di punta con le pastiglie frenanti a basse emissioni. L’Eni si è lanciata nella frontiera del nuovo nucleare. L’Enel ha anticipato al 2027 l’uscita dal carbone. Studi e sondaggi si moltiplicano, è un pullulare di imprese che nascono per occupare spazi, e non proprio nicchie, finora scoperti.
L’impatto sul lavoro è consistente e nell’insieme positivo. I contratti relativi ai green jobs rappresentano il 35,7% dei nuovi contratti nel 2020. Alla fine dello scorso anno 2020 oltre tre milioni di lavoratori svolgevano una professione verde, il 33,8% al Nord-Ovest, il 23,6% nel Nord-Est, il 21,4 al Centro e il 21,3% nel Mezzogiorno. Qui più che altrove tra domanda è offerta c’è una sfasatura che non sarà facile riempire, perché le imprese corrono e il mercato del lavoro arranca, stretto da lacci e lacciuoli, oppresso da resistenze ideologiche, barriere sindacali, un capitale umano impreparato, una scuola inadeguata.