Perché la svolta green passa per le banche e i fondi d'investimento
Chi pagherà per salvare il pianeta? Investire nella transizione energetica costa quasi il doppio dell'attuale pil mondiale. Ma il costo del non agire sarebbe ben peggio: l'ha capito anche il capitalismo finanziario
Il punto critico dei negoziati di Glasgow è il denaro. Limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi costerà molto di più del previsto. Chi pagherà per salvare il pianeta? L’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (Irena), presieduta dall’italiano Francesco La Camera, ha calcolato che gli investimenti per la transizione energetica dovranno aumentare del 30 per cento rispetto a quelli pianificati fino a oggi per un totale di 131 trilioni di dollari da qui al 2050. E secondo la banca d’affari americana Bofa, per arrivare alla neutralità carbonica dovremo investire 5 trilioni di dollari ogni anno a livello globale per i prossimi trent’anni, vale a dire 151 trilioni di dollari, quasi il doppio dell’attuale pil mondiale. Cifre sbalorditive. Tuttavia, il costo del non agire sarebbe più significativo: oltre il 3 per cento del pil potrebbe essere perso ogni anno entro il 2030 e anche di più successivamente, mentre investire nella transizione, sempre secondo queste stime, produrrà un ritorno cumulativo nello stesso periodo di almeno 61 trilioni di dollari e un settore energetico trasformato produrrà 122 milioni di posti di lavoro.
In questo contesto l’Italia, se restasse ferma, potrebbe arrivare a perdere fino a 58 miliardi di pil, secondo un report di Cmcc-European Climate Foundation. Quello che occorre, avverte l’Irena, sono “bruschi aggiustamenti nei flussi di capitale e un riorientamento degli investimenti”. Ecco il punto. Il sistema finanziario avrà un ruolo centrale nella transizione energetica a cui pubblico e privato dovranno contribuire con l’aiuto di capacità e tecnologie. Per questo il summit di Glasgow ha avuto l’effetto di mobilitare interi comparti del capitalismo finanziario mondiale. In Italia, alcune banche e fondi d’investimento, compresa l’industria del risparmio gestito, stanno rendendo esplicito l’impegno nella lotta al cambiamento climatico aderendo a iniziative di livello mondiale che hanno come scopo proprio quello di riorientare gli investimenti. Un’operazione molto delicata che implica l’adozione di politiche selettive nei confronti dell’universo delle imprese più di quanto non sia avvenuto finora. Gli esempi sono ancora pochi, ma la strada è tracciata. Per esempio, Intesa Sanpaolo, Unicredit e Banca Ifis sono tre banche italiane (le uniche) che hanno appena aderito all’alleanza Net Zero promossa dalle Nazioni Unite che impegna ad allineare i portafogli di prestiti e investimenti all’obiettivo di emissioni zero entro il 2050. Far parte di questo network, che rappresenta oltre un terzo dell’industria bancaria globale, implicherà più di generiche dichiarazioni d’intenti.
Lo stesso vale per Eurizon e Fideuram i due unici gestori patrimoniali italiani (entrambi fanno capo a Intesa Sanpaolo) che sono entrati in un’altra alleanza finanziaria per la decarbonizzazione, con 220 operatori internazionali e 57 mila miliardi di dollari di attivi gestiti. Tutti si sono impegnati a sostenere l’obiettivo di zero emissioni nette di gas serra entro il 2050 e vi ha aderito anche la società di private equity italo-britannica Investindustrial presieduta dal finanziere milanese Andrea C. Bonomi, il quale si augura che questo contributo “serva a garantire che gli obiettivi climatici diventino primari all’interno del settore e si tradurrà in benefici tangibili per l’economia reale”.
Ma che cosa implica nel concreto la svolta green di grandi investitori? “Vuol dire innanzitutto mettere a disposizione della transizione energetica ingenti capitali superando un approccio troppo generico che spesso ha sollevato il sospetto di greenwashing”, dice al Foglio Giordano Lombardo, fondatore e ceo del fondo Plenisfer Investments dopo essere stato presidente di Assogestioni. Insomma, si comincia a fare sul serio, ma questo, secondo Lombardo, non vorrà dire disinvestire da aziende impegnate, per esempio, nel settore oil e gas. “Questi produttori vanno supportati affinché la transizione energetica possa essere più rapida – dice Lombardo – Il dibattito, comunque, è aperto nel mondo degli investimenti che vede posizioni opposte alla mia tra i fondi attivisti. Inoltre, intendiamo investire in nuove iniziative infrastrutturali del settore energetico perché sulle rinnovabili si sono concentrate fin troppe risorse con il rischio di alimentare bolle speculative”.
Chi investe a sua volta sulle banche, come Algebris, è molto attento a verificarne l’esposizione nei confronti del settore dei combustibili fossili, come spiega Silvia Merler, responsabile della ricerca e delle politiche Esg della società. “Abbiamo messo a punto un sistema di monitoraggio che ci consente di premiare le istituzioni finanziarie che adottano politiche realmente avanzate nella lotta ai cambiamenti climatici e nella transizione energetica”. Un effetto collaterale che sta emergendo nel mercato è una “allocazione perversa di capitali”, aggiunge Merler, cioè risorse concentrate su soggetti medio grandi e sufficientemente strutturati per ottenere attestati di sostenibilità e meno su piccole e medie aziende valide e innovative, ma meno strutturate”.