Pensioni privilegiate o crisi del settore? Inpgi, storia di un default
“Molti puntano il dito sulla presunta generosità delle pensioni, ma la vera causa è la crisi dell’editoria. Abbiamo fatto le riforme”. “Altro che presunta, l’Inpgi ha sempre rivendicato la sua generosità. Il contributivo è arrivato solo nel 2017, 20 anni dopo il resto del paese”. Botta e risposta con Marina Macelloni, presidente della cassa dei giornalisti
Finalmente si parla dell’Inpgi! Un po’ fuori tempo massimo, ma meglio tardi che mai. Purtroppo, nell’ansia di volersi occupare di una vicenda che sarebbe stato meglio affrontare qualche anno fa, si rischia di commettere qualche errore di valutazione e sono grata al direttore di questo giornale che mi offre l’opportunità di correggere alcune inesattezze lette negli ultimi giorni. Molti hanno puntato il dito sulla presunta generosità delle prestazioni o sul ritardo con il quale sono intervenuti provvedimenti di riforma, pochi si sono soffermati sulle reali cause delle criticità della gestione sostitutiva dell’Inpgi.
Solo negli ultimi cinque anni sono stati persi oltre 3 mila rapporti di lavoro dipendente assicurati, pari al 15 per cento dell’intera platea. E contemporaneamente l’Ente, solo grazie alle proprie risorse, ha fatto fronte all’intero costo degli ammortizzatori sociali. Negli ultimi dieci anni praticamente tutte le aziende editoriali italiane, grandi e piccole, hanno ottenuto stati di crisi che hanno comportato per le casse dell’Inpgi uscite per ammortizzatori sociali pari a oltre 500 milioni. Si può dire che senza l’intervento dell’Istituto oggi probabilmente molte aziende editoriali del paese non esisterebbero più e migliaia di giornalisti avrebbero semplicemente perso il lavoro senza alcuna tutela. Quando si stigmatizza l’intervento dello Stato per “salvare le pensioni dei giornalisti” bisognerebbe ricordare anche quanto ha risparmiato in questi anni lo Stato che ha potuto ignorare la crisi di un settore industriale di grande rilevanza proprio grazie alle risorse messe a disposizioni dall’Inpgi.
A questo proposito qualche parola va spesa sulla famigerata legge 416, una legge dello Stato, introdotta nel 1981 e successivamente modificata anche grazie alle pressioni dell’Ente che ne ha sempre subito gli effetti e contestato gli abusi. La legge, che vale anche per i poligrafici iscritti all’Inps, consente il prepensionamento dei giornalisti dipendenti di aziende in crisi con 62 anni di età e 25 anni di contributi (definita impropriamente da qualcuno “quota 87”). A questi requisiti si è arrivati, dopo anni di battaglie, nel 2017: prima di quella data il requisito di accesso ai prepensionamenti era 58 anni di età e 18 di contributi. Per l’Inpgi la legge 416 è stata una bomba a orologeria che ha consentito dal 2009 ad oggi l’uscita dalla contribuzione attiva di oltre mille giornalisti, con retribuzioni alte, in media cinque anni prima rispetto all’età della pensione di vecchiaia. Ma chi punta il dito oggi contro questa normativa, ripeto: subita e non voluta dall’Inpgi, dov’era nel 2009 quando fu introdotta addirittura la possibilità di ottenere i prepensionamenti grazie a stati di crisi non reali ma semplicemente “prospettici”?
Alle casse dell’istituto avrebbe fatto bene, all’epoca, la stessa levata di scudi tardiva di oggi. Per quanto riguarda gli interventi di riforma, cinque dal 1998 al 2017, l’Inpgi ha adottato per tempo una serie di correttivi del proprio sistema previdenziale tenendo conto delle caratteristiche della propria platea di assicurati contraddistinta da redditi medio-alti. I coefficienti di calcolo della prestazione nel regime retributivo erano tarati su valori decrescenti per fasce di reddito e applicati, dal 1998, sulla media dell’intera vita lavorativa: in questo modo è stato mitigato l’ammontare complessivo dell’assegno pensionistico, determinato sulla base di un coefficiente medio dell’1,5 per cento e non del 2,66 per cento, con effetti sostanzialmente paragonabili a quelli del sistema contributivo.
Questo meccanismo è stato ritenuto valido dal Ministero del Lavoro nel 2012. In seguito alle verifiche sui bilanci attuariali delle Casse previste dalla legge Fornero, il ministero ci scrive: “tenuto conto delle risultanze dell’attività istruttoria svolta e delle comuni determinazioni assunte con il covigilante ministero dell’Economia e delle Finanze, si ritiene positivamente superata la verifica della sostenibilità di lungo periodo della gestione previdenziale”. Nel 2017 l’Ente ha comunque adottato il sistema contributivo avvalendosi della cosiddetta “clausola di salvaguardia” appositamente introdotta nel sistema generale proprio al fine di contenere gli effetti distorsivi che il metodo di calcolo contributivo determina se applicato su retribuzioni elevate. Nessun giornalista percepisce una pensione più alta rispetto al suo ultimo stipendio e ancora oggi, nell’80 per cento dei casi, paghiamo pensioni calcolate con il retributivo perché più conveniente per l’Ente rispetto al contributivo. Inoltre, in attuazione di un principio solidaristico intergenerazionale, l’Inpgi è intervenuto sui trattamenti in essere applicando un contributo di solidarietà di durata triennale e di entità variabile tra un minimo dell’1 per cento e un massimo del 20 per cento. Infine, una notazione personale.
Mi si accusa di aver detto, nel 2017, che l’Inpgi non sarebbe stato commissariato e che non sarebbe confluito nell’Inps. Negli ultimi quattro anni ho lavorato convintamente perché questo non avvenisse. Ho proposto al legislatore una soluzione diversa che prevedeva l’allargamento della platea dei contribuenti: non uno scippo o una deportazione di iscritti ma un modo per dare una rappresentazione previdenziale realistica ai cambiamenti strutturali che la nostra professione ha attraversato e attraverserà ancora in futuro. Una proposta che non è stata scartata a priori, ha ottenuto una legge nel 2019 ed è stata esaminata e discussa dalla commissione istituita a Palazzo Chigi e che ha concluso i suoi lavori nelle settimane scorse. La politica ha scelto un’altra strada e dal mio punto di vista ha perso un’occasione per affrontare finalmente le criticità strutturali del mondo dell’informazione. In ogni caso, se la norma proposta sarà approvata nella legge di Stabilità, l’Inpgi non sarà commissariato e continuerà ad esistere assicurando e tutelando i giornalisti che svolgono il lavoro autonomo. E che ormai sono la maggioranza.
Marina Macelloni
presidente Inpgi
Risponde Luciano Capone
La ricostruzione offerta dalla presidente Macelloni è autoassolutoria, parziale e a tratti mistificatoria. A partire da quando parla di “presunta generosità delle prestazioni”. Sgomberiamo il campo da un elemento, sicuramente veritiero, sottolineato dalla presidente: la crisi del settore. Un fenomeno che, unito alla tendenza demografica, rende lo squilibrio tra prestazioni erogate e contributi versati strutturale. Come abbiamo scritto sul Foglio del 4 novembre, “con meno di 15 mila lavoratori attivi e quasi 10 mila pensionati, il fallimento di un sistema a ripartizione è inevitabile”. Ma questo non giustifica la gestione degli ultimi decenni dell’Inpgi, anzi la rende ancora più irresponsabile: di fronte a uno squilibrio strutturale del genere, per preservare la tanto rivendicata “autonomia” l’Inpgi avrebbe dovuto porre in essere misure sul lato delle entrate (contributi) e su quello delle uscite (trattamenti e criteri di pensionamento) molto più stringenti di quelli adottati dall’Inps. E invece l’Inpgi ha fatto il contrario, rinviando più in là nel tempo possibile l’aggiustamento: i giornalisti sono passati al contributivo solo nel 2017, 21 anni dopo la riforma Dini e 5 anni dopo la riforma Fornero.
Sulla generosità dei trattamenti la presidente dovrebbe, per onestà intellettuale, evitare l’aggettivo “presunta”. Perché è sempre stata rivendicata, a partire dall’aliquota di rendimento per il calcolo retributivo del 2,66 per cento, che ora viene quasi sminuita ed è sempre stata esibita come un notevole privilegio: “Resteranno in vigore – si legge nei documenti Inpgi dopo la lievissima riforma del 2006 – le migliori aliquote di rendimento le quali all’Inpgi partono dal 2,66 per cento, mentre all’Inps iniziano al 2 per cento. Questa differenza, che sembra modesta ma non lo è, a parità di retribuzione consente di maturare all’Inpgi in 30 anni la stessa pensione che all’Inps si ottiene in 40 anni”. D’altronde, se i criteri non fossero così generosi non si comprenderebbe perché l’Inpgi abbia preteso la salvaguardia dei “diritti acquisiti” nel passaggio all’Inps. E se non fossero stati così costosi, l’Inpgi non sarebbe stata costretta a introdurre, con 20 anni di ritardo, il contributivo la cui giustificazione era proprio il contenimento della spesa pensionistica.
Come esempio della gestione finanziaria “generosa”, ci sono i compensi degli organi sociali che, secondo la Corte dei Conti, “sono composti da un numero elevato di soggetti”, cosa che “non è funzionale ad assicurare l’efficacia dell’azione e comporta costi elevati che incidono negativamente su una gestione che presenta un andamento negativo”. L’indennità annua della presidente Macelloni è di 235 mila euro, molto più alta di quella del presidente dell’Inps Tridico pari a 150 mila euro (quella del predecessore Boeri era 104 mila). Ovviamente un taglio dello stipendio non avrebbe inciso su un bilancio così dissestato, ma vedere indennità alte e crescenti mentre tutto va in malora non è un bel segnale.
Quanto ai costi degli ammortizzatori sociali è vero che sono stati elevati, anche se non tali da compensare lo squilibrio previdenziale. Ma anche quello è un elemento dei compiti dell’ente, che peraltro anche in questo caso fornisce prestazioni più alte dell’Inps. È parziale parlare di soldi che “ha risparmiato in questi anni lo stato... grazie alle risorse messe a disposizione dell’Inpgi”. Perché quella dell’Inpgi è una gestione “sostitutiva”, quindi non mette risorse proprie, ma riscuote contributi al posto dello stato per erogare prestazioni al posto dello stato. L’ha fatto in maniera insostenibile, chiedendo contributi più bassi ed erogando prestazioni più alte, ha bruciato il patrimonio e ora scarica i debiti sull’Inps: ciò che lo stato non ha speso e riscosso in passato dovrà farlo in futuro, si spera in maniera più efficiente dell’Inpgi. Anche sui prepensionamenti, dire che è stato concesso di tutto agli editori scaricando gli oneri sulla collettività e sull’Inpgi è senz’altro vero, ma gli editori fanno parte del cda dell’Inpgi e quindi non sono un elemento estraneo al settore. In questo sistema tutti insieme, editori e giornalisti, chi più e chi meno, hanno scaricato i costi sull’Inpgi confidando sulla garanzia implicita dello stato, che ora provvede al salvataggio incentivando così all’azzardo morale le altre casse.
Quanto a quella percepita come “accusa” dalla presidente Macelloni, si riferisce alle sue parole del 2017: “La riforma – disse – consentirà all’Istituto di garantire la sostenibilità dei conti nel lungo periodo”. In tre anni il deficit è aumentato del 250 per cento, passando da 100 milioni nel 2017 a 253 milioni nel 2020: nel 2021 arriva il default. Siccome la sostenibilità di “lungo periodo” di un sistema pensionistico si misura in 50 anni, l’ottimismo sull’impatto della sua riforma si è rivelato un tantino eccessivo. Rispetto alla sua proposta definita “risolutiva”, ovvero l’allargamento della platea dei contribuenti, per fortuna il governo Draghi – a differenza delle intenzioni di quello Conte – lo ha evitato. Almeno questo. Sarebbe stato davvero uno “scippo”: l’Inps avrebbe perso decine di migliaia di contribuenti, producendo un buco che lo stato avrebbe dovuto ripianare, per consentire all’Inpgi di proseguire nella sua gestione “autonoma”, irresponsabile e scollegata dalle riforme fatte dal resto del paese. Una pretesa inaccettabile che è assurdo anche solo prendere in considerazione.
Un ultimo punto riguarda l’Inpgi 2, la gestione separata che riguarda i giornalisti precari, e che “continuerà a esistere”. Non si capisce perché l’Inps si accolli la gestione sostitutiva (Inpgi 1) che produrrà miliardi di perdite e lasci in vita la gestione separata (Inpgi 2), che è in attivo per il semplice fatto che ci sono tanti giovani contribuenti e pochissimi pensionati. Da un lato c’è il rischio, evidente, che anche l’Inpgi 2 in futuro dovrà essere salvata. Ma dall’altro c’è un rapporto simbiotico tra le due casse, che è sempre stato presentato dall’Inpgi come giustificazione dei suoi deficit crescenti. La trasformazione del settore ha portato a un’evoluzione dei rapporti contrattuali, con una diminuzione del lavoro dipendente a beneficio di quello autonomo. “L’analisi dei flussi di movimento tra gli iscritti alla gestione sostitutiva e gli iscritti alla gestione separata – recita l’ultimo bilancio Inpgi – fa emergere come ad una erosione costante dei primi corrisponda, di contro, un incremento dei secondi”. Se il mercato del lavoro è lo stesso e le due platee sono così collegate, perché lo stato attraverso l’Inps deve accollarsi solo la bad company, lasciando la good company a chi ha prodotto la voragine di debiti?
“L’Inpgi non sarà commissariato e continuerà ad esistere assicurando e tutelando i giornalisti che svolgono il lavoro autonomo”, scrive Macelloni. In realtà servirebbe qualcuno che tuteli i contribuenti rispetto al fatto che l’Inpgi continuerà a esistere, ma purtroppo non c’è. Né al governo né in Parlamento.