un paese di vino
Il vino può spiegare il futuro del pil italiano? Forse sì. Intervista a Cotarella
La pandemia ha colpito la produzione ma il rimbalzo è stato molto forte e la vendemmia promette bene. La “signora del vino” ci spiega perché nell'uva c’è anche la verità della ripresa
“Non era mai successo che a settembre fosse già finito il nostro vino”, commenta Dominga Cotarella con il Foglio. E se questo è un segnale, non il solo, ma comunque importante, della ripartenza, allora c’è da essere più che ottimisti. La “signora del vino”, come l’hanno chiamata, spiega che la pandemia ha colpito in modo consistente la produzione, il 2020 si è chiuso con un 18 per cento in meno tra mercato italiano (che vale il 60 per cento del fatturato) ed estero (soprattutto Stati Uniti, Germania e Giappone), ma il rimbalzo è stato molto forte e la vendemmia promette bene. Nel vino, insomma, c’è anche la verità della ripresa, della sua forza e della sua natura; di qui la scelta di una storia aziendale rappresentativa. “Abbiamo consolidato una strada che avevamo già preso da tempo: meno quantità e più qualità”, sottolinea Dominga Cotarella.
È il precetto che guida la ripartenza italiana nell’agricoltura come nell’industria manifatturiera. Ma quantità e qualità non sono in contrapposizione, tanto che l’Italia batte la Francia per volumi produttivi mentre si conferma al top anche nelle classifiche internazionali. Nella pattuglia dei primi 25 gruppi, otto sono italiani, cinque francesi. La cantina di Auerbach dove Mefistofele fa zampillare di tutto, dallo champagne al tokaj, Goethe la troverebbe oggi al di qua delle Alpi. Ma la parabola economica del vino ha un risvolto meno letterario. Ora che la catena produttiva mondiale s’è spezzata e attende una riparazione, riemerge con forza il matrimonio tra globale e locale. Ebbene, cosa c’è più glocal della vite, dell’uva e del suo nettare? L’azienda Famiglia Cotarella, che fino a tre anni fa si chiamava Cantina Falesco, è radicata in un territorio tra l’Umbria e la Tuscia, che racchiude Orvieto, dove Dominga è nata, e le colline circostanti.
È frutto di due fratelli, enologi di chiara fama: Riccardo, padre di Dominga, e Renzo. Nel corso del tempo, Riccardo fonda una società di consulenza e dà vita a una cinquantina di vini, Renzo diventa amministratore delegato di Marchesi Antinori. Intanto si dedicano alla loro impresa che con l’arrivo di una nuova generazione viene presa in mano da tre donne. Amano chiamarsi sorelle Cotarella, anche se in realtà le sorelle sono due, Marta ed Enrica, figlie di Renzo e cugine di Dominga, responsabile commerciale e del marketing. Ma come si possono mantenere salde radici nel proprio territorio e conquistare nuovi mercati con una dimensione che resta troppo piccola rispetto ai colossali concorrenti? In testa alle classifiche troviamo la divisione vino del gigante americano Constellation Brands con un fatturato di oltre due miliardi di euro, subito dietro c’è LVMH (con il marchio di punta Moët & Chandon), poi Treasury Wine (Australia) e Distell Group (Sud Africa) che superano il miliardo, la cilena Viña Concha Y Toro, seguita dalla divisione vino della conglomerata alcolica britannica Diageo, e a quota mezzo miliardo ecco Cantine Riunite, che fanno capo alle coop di Reggio Emilia, poi la Caviro (cantine sociali romagnole), Antinori, Zonin, Mezzacorona.
Se prendiamo le maggiori vigne mondiali (in ettari), in cima si piazzano i cinesi con Yantai Changyu Pioneer Wine, fondata nel 1892 da Zhang Bishi, diplomatico cinese oltreoceano. Poi arrivano gli australiani, i cileni, i nord americani (tra i quali Gallo), gli argentini e i francesi. Tener testa sembra impossibile. “Reinterpretare l’eredità è la nostra missione”, spiega Dominga Cotarella. Alla proprietà familiare, calcola Mediobanca nel suo rapporto sul settore, è riconducibile il 54,1 per cento del patrimonio netto complessivo in Italia; ciò resta un valore, ma le aziende hanno bisogno di rafforzarsi sotto ogni punto di vista, a cominciare dalla dotazione di capitale. Per farlo, diventa determinante quel che nasce attorno. L’idea è mettere il vino al centro di una ragnatela più ampia.
Qui si inserisce per esempio la scuola per insegnare “la sala”, cioè come curare il cliente dal momento in cui siede a tavola. “Abbiamo formato cento ragazzi in quattro anni e tutti hanno trovato lavoro, anzi hanno potuto scegliere tra diverse opzioni”, s’inorgoglisce, lamentando che mancano camerieri e in particolare cuochi, nonostante il battage che si fa sugli chef. Nello scorso aprile è nata una Fondazione per “promuovere l’educazione dei bambini al contatto con la natura” e in particolare un’adeguata educazione alimentare. La onlus svolge attività culturali e formative. Ma la formazione è un po’ la nuova frontiera delle “sorelle Cotarella”, tassello importante di un insieme di progetti. Come quello della Tuscia, imperniato attorno all’olio, prodotto di punta ancor più del vino, che collega Canino, Castiglione in Teverina e Civita. Oppure “Orvieto città del gusto dell’arte e del lavoro”: tra l’altro nel 2023 ricorrono i 500 anni dalla morte di Luca Signorelli, uno dei maggiori pittori rinascimentali. Arte, cultura, territorio e il mondo in un bicchiere, ecco il quadrilatero del vino italiano.