Bilanci e vecchi merletti
Il Covid ha invertito il paradigma politico del pensiero dominante. Durerà?
Tasse sui profitti e un mondo più pulito. Abbiamo cambiato tutte le nostre priorità, ma la politica non sta al passo
C’è chi lo chiama già un nuovo paradigma economico-sociale che getta alle ortiche le idee del Novecento. Certo, poche volte in passato si era visto un così rapido cambiamento del pensiero dominante. Qualcosa di simile era capitato negli anni Settanta del secolo scorso, quando gli sceicchi avevano scosso l’equilibrio dell’occidente basato, dalla Seconda guerra mondiale in poi, sulle materie prime a basso prezzo e la stabilità del dollaro. Nemmeno la crisi finanziaria del 2008-2010 ha avuto effetti tanto profondi. Invece, in pochi mesi abbiamo assistito alla nascita di una tassa mondiale sui profitti e di un mondo più pulito; è stata smontata e rimontata la globalizzazione; abbiamo imparato che i debiti non si pagano e l’inflazione fa bene (purché non sia troppa, come il vino); la spesa pubblica non è una diligenza da assaltare, bensì la leva del nuovo modello di sviluppo; la lumaca Italia s’è messa a correre; il sistema politico più instabile del mondo occidentale ha trovato un punto di gravità. Sono fuochi fatui, siamo abbagliati da un gioco di specchi nei quali si riflettono le nostre illusioni? Non lo sappiamo, ma prima o poi la leggerezza delle parole dovrà lasciare spazio alla gravità delle cose.
Ambiente
Cominciamo da qui. È in pericolo il pianeta, grida il popolo verde. No, la terra se la caverà, in pericolo è l’uomo, sostiene Giorgio Parisi dall’alto del suo Nobel. Comunque siamo in pericolo e i potenti della terra che fanno? Solo bla, bla, bla accusa la pasionaria Greta. Eppure, se vale il vecchio precetto “follow the money”, segui i soldi, allora sembra proprio che si sia messo in moto un cambiamento del quale conosciamo l’inizio, ma non possiamo prevedere l’esito. Cinquecento società globali hanno dichiarato la propria volontà di allineare 130 mila miliardi di dollari, circa il 40 per cento delle attività finanziarie mondiali, con gli obiettivi stabiliti nell’accordo di Parigi, incluso quello di limitare l’aumento della temperatura media globale entro 1,5° centigradi. La turbofinanza diventa ecofinanza, i colossi petroliferi cambiano pelle, le miniere chiudono, le auto vanno a corrente elettrica, i camion a idrogeno, cade il tabù nucleare. Abbiamo impiegato due secoli ad accumulare CO2 e adesso dovremmo abbatterla in trent’anni. È realistico? Sono i paesi che più inquinano a dover accelerare (Cina, America, India, Russia e mondo ex comunista) invece l’onere della transizione cade sulle spalle virtuose dell’Europa occidentale. Quanti lavori scompariranno e quanti ne nasceranno? Infine la domanda più imbarazzante: chi paga?
Bilancio
I costi ricadono sul Pnrr e sulle finanze pubbliche (vedi i superbonus o gli incentivi alle rinnovabili già superincentivate). La torta è consistente, oltre 59 miliardi di euro, ma può non bastare se manca una scelta coerente su quale tecnologia privilegiare e se i grandi gruppi italiani, tutti controllati dallo stato, sono divisi. Intanto cadono come piogge d’autunno le petizioni dei macro e microgruppi d’interesse: ci sono già 915 emendamenti e il disegno di legge ha appena cominciato il suo iter al Senato. Il governo ha preparato 90 decreti attuativi, però dovrà mediare con un un Parlamento balcanizzato, in cui i vari partiti sono divisi per gruppi (come il Pd), fazioni (come il M5s) e linee politiche (come la Lega), non è certo lo scenario migliore per varare una finanziaria (come la si chiamava un tempo) pulita e sensata. Anche perché si è diffuso ormai un altro senso comune, quello che possiamo sempre indebitarci.
Debito
Venerdì scorso Francesco Giavazzi, che ora è consigliere di Draghi, intervenendo a Bergamo al Festival CittàImpresa ha detto con una battuta che “il debito è un concetto del secolo scorso”. Il 31 gennaio sul Corriere della Sera aveva spiegato che “è un errore ripetere che il nostro principale problema è il debito pubblico: il nostro problema maggiore sta nell’assenza di crescita. Se la nostra economia crescesse più rapidamente del nostro debito ripagarlo non sarebbe necessario”. Mario Monti mette le mani avanti: “Stiamo attenti a non assecondare, in un popolo che spesso vede solo i benefici del debito pubblico e non i suoi costi, una pericolosa disinvoltura”, ha scritto sempre sul Corsera. Draghi finora se l’era cavata con la distinzione tra debito buono e cattivo. Storicamente in Italia è prevalsa la legge di Gresham, la moneta cattiva ha sempre scacciato quella buona. Il rimbalzo economico post pandemia, invece, sembra dar ragione a Giavazzi: il pil corre e il debito si riduce, non quello assoluto che sale senza sosta, ma quello relativo; si tratta in sostanza di un rapporto tra numeratore e denominatore, mera aritmetica. In concreto, gli investimenti si fanno con i soldi della Ue, parte dei quali da restituire sia pure in tempi lunghi, la spesa corrente si fa con i buoni del Tesoro, sperando che la Bce tenga i tassi al minimo per tutto il 2022 come Christine Lagarde si augura. Il debito italiano è sostenibile, ma se torna Lady spread e riparte un attacco tipo 2011? Monti è convinto che viviamo in una bolla, “un regime in parte artificioso”. Non si tratta solo dell’eterno duello teorico tra keynesiani e monetaristi, le due visioni hanno una ricaduta molto chiara e concreta. Giavazzi non è per lo spendi e spandi, sia chiaro, né Monti per l’austerità a tutti i costi, entrambi sanno bene che la spinta all’economia impressa da deficit e debito pubblico se protratta nel tempo, anche quando la crescita è ben avviata, crea pesanti conseguenze sociali e politiche, non solo economiche. Lo stesso Keynes, del resto, ha teorizzato il deficit spending per uscire dalla recessione, poi bisogna mettere mano alle tasse.
Imposte
E qui il governo deve risolvere un dilemma tutt’altro che tecnico. Occorre alleviare il peso sul lavoro dipendente o su quello autonomo? La ricaduta politica è evidente: prevarrà il Pd o la Lega? Risorse per tutti, al momento non ci sono. Nel prossimo anno si può contare su poco più di otto miliardi per ridurre le imposte sul reddito. È l’inizio di un percorso al termine del quale ci sarà una riforma organica, una strada lunga e accidentata. Dopo le elezioni del 2023 chi porterà a compimento gli impegni presi oggi? E chi ne trarrà beneficio? I redditi medi, dice Draghi, i quali però sono generati da lavoro dipendente (e sono redditi certificati dalle buste paga) e da lavoro autonomo (e sono redditi incerti, dipendono dalla serietà delle dichiarazioni e da alcuni criteri indiziari). Per ragioni oggettive, dunque, e non solo per comportamenti eticamente scorretti, la maggior parte dell’evasione fiscale si concentra tra le partite Iva. Non solo: le deduzioni e le detrazioni sono in genere maggiori e riducono ulteriormente la base imponibile. Se andiamo a calcolare l’aliquota effettiva vediamo che i lavoratori autonomi sono favoriti. Davvero un bel rompicapo per gli equilibri della maggioranza, dal momento che la divisione sul mercato del lavoro diventa immediatamente divisione tra i partiti politici.
Inflazione
La questione del ceto medio è al cuore anche del rischio inflazione. Il campanello d’allarme suona ormai da mesi: i prezzi salgono a ritmi che non si erano visti da dieci anni a questa parte: oltre il 4 per cento in Germania, al 6 per cento negli Stati Uniti, l’Italia va meglio, resta poco sopra i due punti percentuali, ma la curva sale comunque verso l’alto. Una scuola di pensiero teorizza che non ci sia da preoccuparsi, è una impennata temporanea provocata dalle difficoltà ad aggiustare la catena produttiva mondiale interrotta dalla pandemia, da pressioni sulle materie prime e manovre speculative sugli idrocarburi (i sauditi col petrolio i russi col gas). Finché non c’è una spinta salariale non si può parlare di vera inflazione. È quel che oggi sostengono quasi tutti i banchieri centrali. Una seconda scuola arriva a dire che l’ascesa dei prezzi fa bene all’economia, è come un lubrificante, almeno finché si riesce a contenerla e le banche centrali oggi hanno tutti gli strumenti per farlo. La terza scuola, invece, cita l’effetto palla di neve: all’inizio anche l’inflazione può essere racchiusa tra le dita di una mano, poi diventa una valanga. Contenerla è costoso e spesso impossibile. La pensa così anche Larry Summers, già ministro del Tesoro nel secondo mandato di Bill Clinton, un economista lontano da Milton Friedman e seguaci. La sua preoccupazione non è solo economica: l’inflazione, sostiene, ha un effetto distributivo perverso, colpisce i risparmiatori e quella parte della middle class che già si sente colpita ed emarginata dalla globalizzazione. Dunque, è come dare fuoco alle polveri della rabbia, del risentimento, della rivolta contro l’establishment, si finisce per alimentare le spinte antidemocratiche che oggi attraversano non solo l’America, ma l’occidente intero. Solo il tempo dirà chi ha ragione, ma il tempo non è sempre dalla parte della ragione. Come dimostra la gogna alla quale vengono sottoposte le imprese.
Profitti
La tassa globale sulle multinazionali non si sarebbe mai realizzata senza la pressione del nuovo spirito dei tempi. Per Janet Yellen, l’economista già presidente della Federal Reserve e ora segretaria al Tesoro, è un grande passo avanti, ma cosa cambia in concreto? Non molto in termini di gettito per paesi che applicano aliquote superiori al 15 per cento, come l’Italia che è al 21,3 per cento. Inoltre ci sono ancora troppi punti oscuri da chiarire prima che sia applicata dal 2023: per esempio la base imponibile che cambia notevolmente con il gioco delle detrazioni e deduzioni, oppure la sorte della web tax che dovrebbe essere assorbita dal nuovo regime. Più in generale ci troviamo nella variante economica del paradosso di Zenone: gli stati possono correre quanto vogliono, le imprese sono sempre un passo avanti, soprattutto quando si tratta dei colossi internet, della cosiddetta economia immateriale, un algoritmo non è un manufatto e viaggia alla velocità della luce senza limiti spaziali. Non solo non è chiaro dove e cosa si produce, ma nemmeno dove si forma e si realizza il profitto. Meglio riconoscere quel che non sappiamo, per non suscitare infondati entusiasmi, lo stesso oggi vale per tutti gli altri introiti.
Reddito
L’Italia si accapiglia su un particolare tipo di reddito, quello che viene elargito per “combattere la povertà” (parola di Beppe Grillo). Reddito di cittadinanza, così è stato chiamato, anche se il reddito che riduce davvero la povertà è quello derivato non dal deficit dello stato, ma dall’aumento del pil. E nel momento in cui disincentiva la ricerca di un lavoro, l’assegno universale diventa nemico del reddito nazionale. Magari fossero solo bandierine, ci vanno di mezzo interessi reali, ceti di riferimento, elettori. Vincerà l’assistenzialismo che accomuna di fatto la destra sovranista e il populismo pentastellato oppure il produttivismo che ha in Mario Draghi il suo campione? Molto dipende dalla tenuta del rimbalzo produttivo che stiamo vivendo in questi mesi.
Ripresa
Sarà vera crescita, sarà un nuovo ciclo di sviluppo? Non possiamo aspettare che i posteri emettano l’ardua sentenza. Tutti i segnali mostrano che l’industria italiana è ripartita a spron battuto, trascinata ancora una volta dalle esportazioni. Sussidi, incentivi, bonus insomma la pioggia di moneta lanciata dagli elicotteri di stato, ha sostenuto mediamente i redditi e ora cresce anche la domanda interna. Si è diffusa la falsa idea che la ripresa coincida con le infrastrutture pagate da Bruxelles o con le nuove fonti energetiche. Nessuno dubita che ferrovie, strade, pannelli solari, risanamento urbano siano fondamentali e creino lavoro, ma la leva è nella spesa privata non in quella pubblica. Ci sono 1.500 miliardi di euro parcheggiati a zero interessi nei conti correnti (400 miliardi i depositi delle imprese), poco meno del pil di un anno. La chiave per trasformare il rimbalzo in crescita duratura è in quel denaro dormiente che andrebbe trasformato in investimenti e consumi: anziché paura del futuro, una scommessa sul futuro. La Banca d’Italia pubblica regolarmente le cifre e accende un riflettore, ma poi tutto svanisce nel chiacchiericcio quotidiano. Non ne parlano nemmeno i rappresentanti degli operai che un tempo facevano a gara per mettere il pepe sulla coda dei padroni e oggi fanno da stampella allo stato previdenziale.
Tavoli
Cgil, Cisl e Uil hanno “aperto un tavolo” con il governo, avranno da discutere a lungo, per mesi, almeno fino alla elezione del presidente della Repubblica, sulle pensioni, sul welfare, sui massimi problemi. Sono grandi tavolate, poi ci sono i tavolini del ministero dello sviluppo, quelli delle crisi aziendali, erano più di cento, sono scesi a 87 ma si tratta di veri rompicapo. Il tavolo in Italia è ormai il surrogato della concertazione. E non solo in Italia. A Glasgow per esempio. Il Cop26 è stato un succedersi prima di microfoni e poi di tavoli. Possono essere l’unica alternativa alle piazze, si dice, insomma il dialogo al posto del conflitto. Per ora non è così. Abbiamo tavoli e piazze, quelli che mancano sono i cantieri. Intanto si corrode la democrazia governante e prende spazio la democrazia orante quella che attende il deus ex machina non essendo in grado di decidere e di realizzare. La crisi dei sistemi politici occidentali non ha a che fare tanto con la rappresentatività, visto che tutti in un modo o nell’altro si fanno rappresentare o si rappresentano nel gran teatro dell’affabulazione mediatica, ma con la sua capacità di dare risposte chiare e concrete.
Vaghezze
“Superamento del capitalismo, capitalismo guidato dallo Stato nell’utilizzo delle risorse e politiche industriali pervasive sono le formule tanto generose e ambiziose quanto astratte, vaghe e inapplicabili che la pandemia ha riproposto”, ha scritto lo storico ed economista Pierluigi Ciocca (che non è un alfiere del neoliberismo) nell’ultimo libro “Ricchi e poveri. Storia della diseguaglianza” pubblicato per Einaudi. La sua ricetta è tanto classica quanto sostanziosa: cresciamo e moltiplichiamo così lavori, redditi, benessere collettivo. Attenti dunque a non spacciare per nuovo paradigma un collage di luoghi comuni.