Perché saranno i clienti a pagare il costo dell'operazione Kkr-Tim
L'offerta del fondo americano per l'acquisto di Telecom nasconde tre buone notizie e un trappola. Ma resta uno dei più interessanti esperimenti di convergenza tra pubblico e privato di questa nuova stagione del capitalismo infrastrutturale
L’offerta di Kkr per l’acquisto del 100% di Tim contiene tre notizie buone e una notizia meno buona, ma tutto sommato comprensibile. La prima buona notizia è che l’Italia torna a essere mercato attrattivo per investimenti esteri infrastrutturali e di vasta scala, e non solo per acquisizioni, talvolta predatorie, di medie imprese d’eccellenza. Non si tratta di benefattori o di ingenui: Kkr ha già investito 1,8 mld nel 2020 per il 37,5 per cento di FiberCop, la joint venture infrastrutturale tra Tim e Fastweb, e ha quindi avuto tutto il tempo per valutare dal di dentro la consistenza degli asset che compongono la rete. Kkr è interessato a entrare in un perimetro industriale che garantisca rendimenti interessanti di medio-lungo periodo: le reti digitali di nuova generazione, specie se in odore di monopolio, lo sono certamente.
La seconda buona notizia è che si creano le condizioni per un indispensabile riassetto industriale del settore delle telecomunicazioni sono solo italiane, ma anche europee. Mai come con l’emergenza sanitaria e logistica imposta dalla pandemia, tutto il mondo ha compreso che Internet è diventata infrastruttura essenziale per lavorare, per curare, per vendere e comprare, per insegnare e imparare. Grazie alla sua centralità, la rete si è trasformata da generica infrastruttura tecnologica a essenziale elemento istituzionale. Lo stabilisce il Digital Compass 2030 voluto dalla Commissione Europea, che punta alla “gigabit society” e che può essere legittimamente considerata ispiratrice, sia pure indiretta, dell’operazione di riassetto; dopo il delisting e lo scorporo di diversi asset del gruppo, nei desiderata delle istituzione nazionali ed europee c’è infatti la costituzione di una società unica della rete, con una forte presenza di capitali pubblici, sul modello delle altre network companies, attive solo sul mercato all’ingrosso, che gestiscono il trasporto dell’elettricità (Terna) e del gas (Snam Rete Gas).
La terza buona notizia è che in questo nuovo scenario di sblocco di un quadro di governance non funzionale – sia di Tim sia di OpenFiber – e di riapertura del ciclo di investimenti infrastrutturali, le probabilità di rispettare le scadenze della missione del Pnrr relativa alla trasformazione digitale diventano più realistiche, dando un contributo essenziale a una delle poche aree di intervento del Piano che possono determinare un aumento strutturale della produttività. Non dimentichiamo che la partita su Tim impatterà non solo sull’impegno alla connessione di tutte le famiglie italiane con la banda ultralarga, ma anche sul progetto di Cloud Nazionale, particolarmente critico anche in ottica di sicurezza e di assetti geopolitici.
La notizia meno buona è che a risolvere la complessa equazione del nuovo assetto finanziario, pagando il conto dei costi dell’operazione, saranno utenti e imprese. Non è difficile prevedere, infatti, che la quadratura economica e patrimoniale sarà trovata con l’accollo di gran parte del debito a carico della società della rete; altrettanto potrà avvenire sul fronte degli esuberi di personale, con il probabile trasferimento di molte delle risorse in eccesso al costituendo soggetto monopolista delle infrastrutture. I costi finiranno quindi incorporati nelle tariffe wholesale che saranno applicate agli operatori di servizi per il mercato finale, i quali trasferiranno a valle nelle offerte per famiglie e imprese. Pragmaticamente, si può considerarla una condizione accettabile, visto che i prezzi dei servizi di Tlc in Italia sono da anni tra i più bassi dell’eurozona e da tempo mettono sotto stress i bilanci degli operatori. Chiarito quindi che il conto finale del progetto lo pagheranno i clienti, godiamoci nei prossimi mesi gli sviluppi del più grande spettacolo finanziario dell’eurozona e dell’interessante esperimento di convergenza tra pubblico e privato di questa nuova stagione del capitalismo infrastrutturale.