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Il golden power no, grazie. Tim e Kkr: piano con la politica
L’esercizio dei poteri speciali dovrebbe essere riservato ai casi in cui la sicurezza nazionale viene messa a repentaglio. Abbiamo qualcosa da temere dall’eventuale opa del fondo americano? No
Le vicende attorno alla rete tornano alla ribalta. L’offerta di Kkr, già partner di Tim nella società Fibercop, ha già scatenato la fantasia della politica. Diversi esponenti della maggioranza e dell’opposizione si sono affrettati a presentare al governo le richieste più varie: esercitare il golden power, garantire l’occupazione e la sicurezza nazionale, realizzare la rete unica (!), cambiare i vertici dell’azienda, nazionalizzare Tim (!).
La politicizzazione del dibattito sulla rete non è nuova: in fondo è una costante del dibattito italiano. Negli ultimi anni i ritardi dello sviluppo e degli investimenti hanno alimentato una polemica ancora più feroce. Le cause probabilmente non sono da individuarsi nel “lupo cattivo” del privato che intende massimizzare i profitti, ma forse proprio in un atteggiamento della politica che, sin dalla privatizzazione di Telecom Italia, ha azzoppato lo sviluppo di una delle più importanti imprese del nostro paese. Oltre al pesante debito, gran parte del quale proveniente dal veicolo societario con cui è stata acquisita in un’Opa e successivamente fusa, Tim nel tempo ha elargito dividendi troppo elevati, costringendola a ritirarsi da importanti mercati e confinare le proprie attività quasi esclusivamente all’Italia. Poi, con l’attuazione del piano per lo sviluppo della banda ultralarga, invece di favorire gli investimenti privati, la politica ha deciso di fare “concorrenza” attraverso la creazione di una società partecipata da due soggetti controllati dallo stato (Enel e Cassa depositi e prestiti), i cui successi in termini di richieste di fornitura di fibra, da parte dei fornitori di servizi di connettività, non sono ancora entusiasmanti.
Inoltre, nel 2017, per preservare la concorrenza in un contesto dove i prezzi sono scesi più che in ogni altro settore, la Commissione europea ha subordinato il via libera alla fusione fra Tre e Wind alla cessione di asset a un new comer, cioè Iliad. Questo ha ulteriormente eroso i proventi delle telco, alle quali però al contempo si chiedevano continui investimenti. Una situazione alla quale Tim non sempre è riuscita a reagire nei tempi necessari, non solo per una sindacalizzazione interna altissima, ma per la costante interferenza statale, nel tempo sempre presente a livello informale nonostante la privatizzazione, poi anche formalmente attraverso la partecipazione diretta di Cdp nell’azionariato. Ma non è finita qui: appena dopo un anno dalla decisione della Commissione europea, in Italia il meccanismo di aste per le frequenze 5G è risultato il più costoso d’Europa, dragando agli operatori ulteriori risorse che avrebbero potuto essere invece investite proprio nello sviluppo della infrastruttura, fibra e 5G che oggi sono oggetto della strategia del Pnrr.
Alla luce di tutto questo viene da chiedersi: abbiamo davvero qualcosa da temere dall’eventuale Opa di Kkr? L’esercizio dei poteri speciali, in teoria, dovrebbe essere riservato ai casi in cui la sicurezza nazionale viene messa a repentaglio. Siamo davvero sicuri che l’ingresso di uno dei più grandi fondi al mondo, già attivo nel nostro paese, possa rientrare in questa fattispecie? O, forse, ci troviamo di fronte all’ennesimo tic protezionista e antimercato? Tra l’altro, dovremmo avere il coraggio di ripensare il golden power tenendo conto sia della natura soggettiva degli investitori, sia di quella oggettiva dei paesi da cui provengono: trattare un fondo americano alla stregua di un’impresa di stato cinese è, semplicemente, assurdo.
Del resto, è ormai evidente che c’è un interesse crescente dei fondi di investimento per le reti di comunicazione. L’obiettivo di Kkr non può essere altro che controllare il principale asset di Tim, cioè la rete fissa, al fine di intercettare la crescente domanda di connettività. Nella cacofonia della politica, per fortuna, si distingue il comunicato del Mef che tiene a sottolineare l’interesse che i progetti privati siano compatibili con il completamento della rete ultrabroadband, obiettivo del Pnrr, mentre meno realistico appare il passaggio sulla crescita dell’occupazione. In un settore altamente competitivo come quello delle comunicazioni, forse sarebbe meglio provare a mettere pochi lacci e lacciuoli alle aziende. Già si ipotizza la creazione di gruppi di lavoro con ministri ed esperti, di fronte a (pur importanti) operazioni di mercato. La promessa più inflazionata della politica italiana è quella di semplificare: nessuno si aspetta che sia realmente mantenuta, ma almeno smettere di complicare le cose sarebbe un buon primo passo.