la festa dell'ottimismo
Il film dell'inflazione. L'intervista a Fabio Panetta (Bce)
Buona, brutta o cattiva? La politica monetaria che deve essere paziente. La reazione Ue allo choc pandemico che ci porta “verso un'unione monetaria ottimale”. Il progetto dell'euro digitale
Si è parlato anche di economia e politica monetaria domenica scorsa a Firenze. Ospite della Festa dell’Ottimismo Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Bce. Siamo partiti da un tema attualissimo e preoccupante per molti: l’aumento dei prezzi.
L’inflazione è lo spettro che si aggira per l’Europa. qualche giorno lei fa ha fatto un discorso a Parigi in cui per spiegare il fenomeno è ricorso a una citazione di Sergio Leone, ha parlato di un’inflazione buona, una brutta e una cattiva. Di fronte a quale siamo? “Ho cercato di utilizzare un artificio retorico per spiegare che un aumento dell’inflazione non determina nella Banca centrale una reazione automatica: non è vero che appena i prezzi cominciano a crescere al di sopra di una certa soglia, la Banca centrale interviene con una restrizione monetaria. L’artificio retorico serve per spiegarlo all’opinione pubblica, che in alcuni paesi ha una fortissima avversione per l’inflazione, per cui un aumento dei prezzi considerato eccessivo genera timore e sconcerto.
Vi è un’inflazione “buona” quando l’economia cresce, quando cresce l’occupazione, in un quadro di stabilità; quando la domanda aumenta, facendo pressione sull’offerta, generando un aumento dei prezzi e aspettative più o meno in linea con l’obiettivo della Banca centrale. In queste condizioni, con un’inflazione intorno al 2 per cento, non ci dovremmo preoccupare. La Banca centrale dovrebbe sorvegliare e accompagnare la situazione senza particolari timori, e l’opinione pubblica non dovrebbe temere che il proprio potere d’acquisto possa essere eroso dall’inflazione. C’è poi una secondo tipo di inflazione, quella “brutta”, che emerge quando l’inflazione cresce ma l’economia non fa altrettanto: è un po’ la situazione di oggi. Oggi stiamo subendo una serie di shock che si sono determinati a livello mondiale nell’andamento dei prezzi delle materie prime, dei prezzi dei prodotti energetici, nonché a causa di colli di bottiglia nella produzione e nella distribuzione di beni. In questa situazione, all’aumento dell’inflazione corrisponde un rallentamento dell’attività economica, un’occupazione lontana dal pieno impiego. Una situazione non ottimale. In questo caso la Banca centrale non necessariamente deve intervenire. La politica monetaria influenza la domanda, può frenarla quando si registra una crescita eccessiva dei consumi o degli investimenti, per evitare che le pressioni sull’offerta siano eccessive e l’inflazione possa andare fuori controllo. Nel caso attuale però i fattori che determinano l’aumento dei prezzi sono fattori su cui la politica monetaria non può influire. Per esempio, una parte molto rilevante dell’attuale crescita dell’inflazione è dovuta all’aumento dei prezzi dei prodotti energetici (gas, petrolio) e delle materie prime. Ma il prezzo del petrolio non è influenzato dalla politica monetaria di un singolo paese, è determinato soprattutto dalle decisioni di un cartello di pochi produttori che effettua le proprie scelte in base ai propri obiettivi di profitto e di produzione. Anche se i tassi di interesse in euro aumentassero, non vi è motivo per cui i paesi produttori dovrebbero aumentare l’offerta di greggio. Anche il gas ha un’importanza significativa per l’inflazione dell’area dell’euro, e la quantità di gas sul mercato viene di fatto determinata dalle scelte del governo russo. Se anche la Banca centrale intervenisse con una restrizione la quantità e il prezzo del gas offerto sul mercato non cambierebbero. Se oggi la BCE intervenisse, avremmo una minore occupazione, un minor volume di investimenti e di consumi, una minore attività economica, ma l’inflazione rimarrebbe dov’è oggi. Né potremmo diminuire i cosiddetti colli di bottiglia, cioè quelle strozzature dell’offerta che riducono la disponibilità di beni, inducendo un aumento dei prezzi.
C’è poi un terzo tipo di inflazione, la peggiore, quella “cattiva”. L’inflazione che noi oggi osserviamo è in gran parte determinata da fattori temporanei. I colli di bottiglia e l’aumento dei prezzi delle materie prime non dureranno per sempre. Prima o poi i produttori di petrolio aumenteranno le quantità offerte sul mercato. E le strozzature nell’offerta verranno prima o poi superate: chi produce automobili, microchips aumenterà l’offerta, e si ridurrà la carenza di prodotti intermedi. A quel punto l’inflazione rallenterà. Se però si mette in moto un meccanismo di propagazione che trasforma questa spinta temporanea sul livello dei prezzi in una vera e propria persistente inflazione, allora la Banca centrale dovrà intervenire.
Ma non siamo a quel punto, e dobbiamo spiegare all’opinione pubblica perché, di fronte a un’inflazione superiore al nostro obiettivo del 2 per cento, la BCE non sta intervenendo. E la risposta è semplice: non stiamo intervenendo perché se lo facessimo creeremmo più danni che benefici: non riusciremmo a intervenire sulle cause dell’inflazione, non riusciremmo a evitare l’erosione del potere d’acquisto dei lavoratori, ma determineremmo un rallentamento dell’attività produttiva, un rallentamento dei consumi, degli investimenti, dell’occupazione. Non tutte le medicine vanno bene per qualsiasi malattia. Ho usato questa categorizzazione nella speranza che Sergio Leone sia noto anche in Germania, in Olanda e nei paesi che hanno tradizionalmente un’avversione molto elevata all’inflazione”.
Lei è ritenuto una “colomba”. Ma nel caso in cui ci fossero ragioni preoccupanti e strutturali che causano l’aumento dell’inflazione sarà necessario fare qualcosa? “Spieghiamoci: sono definiti colombe quelli che hanno un’aggressività minore nell’attuazione della politica monetaria e falchi quelli che propendono per una politica monetaria più severa. Beh, io credo di essere il più falco di tutti. Mi faccia spiegare. Se la crescita dei prezzi si trasforma in un fenomeno persistente, che rischia di portare l’inflazione permanentemente al di sopra del 2 per cento, con tutte le conseguenze economiche e finanziarie che ne dipendono, la Banca centrale non solo può, ma deve intervenire.
Quando la politica monetaria deve intervenire, non c’è motivo di farlo un passo alla volta, a tozzi e bocconi. Sarebbe controproducente, potrebbe ritardare l’aggiustamento e rendere maggiore il costo dell’intervento. Ma questo vale in entrambe le direzioni: sia quando la politica monetaria è espansiva sia quando deve avviare una restrizione monetaria.
Tornando alla distinzione un po’ posticcia tra falchi e colombe, se l’andamento dei prezzi si collocherà persistentemente – e non una tantum – al di sopra dell’obiettivo della Banca centrale, io sarò non solo disponibile a intervenire, ma voterò per un intervento molto rapido e deciso. Questo non è da colomba o da falco. È semplicemente ragionevole”.
Più preoccupante è la dinamica negli Stati Uniti, che ha cause in parte analoghe a quelle europee. Sono situazioni diverse? E il fatto che la Federal Reserve agirà prima della Bce comporterà delle conseguenze sulle decisioni della politica monetaria dell’eurozona, o sono completamente indipendenti e distinte? “Gli Stati Uniti hanno una situazione congiunturale diversa dalla nostra. Da loro l’inflazione ha un abbrivio maggiore. La Bce ha un passato di inflazione significativamente al di sotto dell’obiettivo, è stata fin troppo efficiente nel garantire la stabilità dei prezzi. Tant’è vero che si potrebbero essere radicate nell’area dell’euro aspettative di un’inflazione permanentemente più bassa rispetto all’obiettivo del 2 per cento. E se i consumatori, gli investitori e gli operatori finanziari si aspettano che l’inflazione sia bassa, riportarla al 2 per cento può essere particolarmente costoso per la Banca centrale.
Questo è un problema che negli Stati Uniti non c’è, perché lì la dinamica dell’inflazione negli anni scorsi è stata intorno al 2 per cento. In più, negli Usa la risposta della politica fiscale alla pandemia è stata molto più forte rispetto all’area dell’euro. Nel 2020 il Pil Usa si è ridotto in misura significativa, ma il reddito disponibile delle famiglie è aumentato di diversi punti percentuali. Ciò è stato possibile grazie al fatto che il governo americano è intervenuto con dei trasferimenti massicci , accrescendo la capacità di spesa delle famiglie. Per questo motivo, la dinamica dei consumi negli Stati Uniti è molto superiore a quella precedente lo shock pandemico. In realtà, è superiore anche al trend pre-pandemico, cioè rispetto a dove si sarebbero collocati i consumi oggi se non ci fosse stata la pandemia.
Nell’area dell’euro invece i consumi sono assai al di sotto del trend, e in alcuni paesi sono al di sotto del livello precedente la pandemia. Quindi la domanda di beni e di servizi nell’area dell’euro è, in termini relativi, molto più bassa. Questo spiega perché la core inflation (ossia l’inflazione al netto dei prezzi dei beni energetici e alimentari) da noi è molto inferiore rispetto agli Usa.
La politica monetaria della BCE deve seguire quella della banca centrale statunitense? No, per fortuna. Con fatica abbiamo costruito un’unione monetaria che rappresenta la seconda economia del mondo (o la terza, a seconda delle misure). Nell’impostazione della politica monetaria la BCE ha un’autonomia assai ampia, che i singoli paesi dell’area non avrebbero se fossero al di fuori dell’unione monetaria. Possiamo determinare la nostra politica monetaria in modo indipendente, in funzione delle esigenze dell’economia europea, della crescita, dell’occupazione e in ultima analisi dell’inflazione che si registrano in Europa, senza eccessivi condizionamenti esterni. Ovviamente dobbiamo tener conto delle condizioni reali e finanziarie a livello globale, come tutti. Un rincaro delle materie prime colpisce tutti, ma una politica monetaria restrittiva e un aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti non ci condizionano come invece succederebbe se fossimo 19 paesi, più o meno piccoli, da soli”.
Tutto ciò è molto interessante rispetto alla cosiddetta sovranità monetaria, di cui tanto si è parlato negli ultimi anni. Alla fine avere l’euro rafforza la sovranità: da soli saremmo meno sovrani, cioè più condizionati da scelte fatte fuori dai nostri confini. L’Italia si sarebbe trovata in questo scenario con un debito sempre più elevato. “Certo, in passato l’Italia aveva dei margini di autonomia monetaria inferiori a quelli di cui gode oggi l’area dell’euro: eravamo condizionati, come tutti a livello mondiale, dalle condizioni monetarie e finanziarie degli Stati Uniti. Quindi se gli Usa crescevano troppo e avevano bisogno di una politica monetaria restrittiva, noi ci prendevamo una parte della restrizione senza essere cresciuti. In pratica, loro bevevano e noi ci ubriacavamo. Ma non solo, c’era anche un condizionamento a livello europeo determinato dalle condizioni monetarie in Germania.
Oggi la BCE è in una condizione diversa. E l’Italia contribuisce alla determinazione della politica monetaria europea attraverso la Banca d’Italia e con la partecipazione al Comitato Esecutivo della BCE, che è composto da sei membri indipendenti.
Ma una politica monetaria unica a livello europeo richiede di avere economie il più possibile sincronizzate, e politiche fiscali coordinate. La reazione allo shock pandemico ha determinato uno sforzo europeo senza precedenti per avere politiche che dessero una maggiore omogeneità nella reazione fiscale. Ci stiamo muovendo lentamente verso una unione economica e monetaria vera e propria”. Alle variabili come il prezzo delle materie prime e dell’energia, si sono aggiunti il virus e le varianti. Alla Bce avete istituito un comitato di virologi? Come studiate questa variabile sanitaria, che presumo non fosse nelle expertise delle banche centrali? “Abbiamo scambi con epidemiologi, infettivologi di livello europeo e internazionale che ci spiegano quali possono essere gli impatti di carattere sanitario, la durata di alcuni tipi di shock. Gli esperti ci aiutano a fare le nostre valutazioni e a decodificare quello che succede sul fronte della pandemia in termini di comportamenti economici.
Quando le infezioni si diffondono e i rischi sanitari aumentano, famiglie e imprese sono condizionate dalla maggiore incertezza, divengono meno propense a consumare e a investire. Ad esempio, una delle maggiori conseguenze della pandemia è stato il fortissimo aumento del risparmio: sia perché siamo stati tutti costretti a stare in casa, sia perché abbiamo reagito all’incertezza adottando decisioni di spesa più prudenti”. Lei è il pioniere del progetto dell’euro digitale. In questi due anni la pandemia ha portato a un’accelerazione verso il digitale di tutta l’economia nazionale, c’è un certo entusiasmo nella popolazione nell’adozione delle nuove tecnologie ma anche una forte paura per tutto ciò che è digitale: il timore di essere controllati. C’è il timore che possa sparire il contante, che saremo meno liberi. In cosa consiste l’euro digitale? “L’utilizzo del contante registra una diminuzione in tutti i paesi per via di due tendenze. La prima è il crescente utilizzo di strumenti di pagamento digitali, quali carte di credito o di debito, applicazioni su smartphone, su smartwatch. La seconda tendenza è la crescita degli acquisti online. La conseguenza è che il contante – pur rimanendo lo strumento di pagamento più diffuso – sta perdendo rilevanza. Questo vuol dire che stanno diventando sempre più importanti gli strumenti di pagamento privati, mentre lo strumento di pagamento pubblico – le banconote – sta perdendo rilevanza. Se questa tendenza proseguisse potremmo trovarci in futuro in una situazione in cui lo strumento di pagamento pubblico, la moneta sovrana, potrebbe divenire marginale. Ma questo non deve succedere. La moneta è il simbolo della forza e dell’autorità dello Stato; il suo valore è garantito dalla credibilità dello Stato, e solo per questo motivo essa può svolgere una serie di funzioni.
Le banche centrali guardano al medio e al lungo termine, e devono attrezzarsi oggi per essere in grado di reagire in futuro qualora dovessimo trovarci in una tale situazione. Stiamo lavorando sin d’ora per essere in grado di emettere, se necessario, l’equivalente delle banconote sotto forma digitale. Voglio essere chiaro: le banconote non verrebbero sostituite, l’euro digitale si affiancherebbe al contante. L’euro digitale ci consentirà, di utilizzare strumenti di pagamento digitali pubblici anche quando il mondo sarà tutto online. Tutti – giovani e vecchi, donne e uomini, poveri – devono poter utilizzare la moneta a costi accessibili e in modo agevole. Lo Stato deve continuare a offrire uno strumento di pagamento a basso costo, di facile utilizzo e ampiamente utilizzabile. Questo è il progetto dell’euro digitale”.
Molto dipenderà dai cittadini, se accetteranno di usarlo o meno: ci sarà la libertà in tal senso. Questo pone dei limiti alla politica monetaria della Bce? “L’euro digitale ha due rischi. Da un lato, esso potrebbe avere troppo successo. Potrebbe indurre i cittadini a detenere soltanto euro digitali, spiazzando le banche e danneggiando l’intermediazione creditizia, che è alla base del funzionamento di una moderna economia industriale. L’altro rischio è che i consumatori non abbiano incentivi sufficienti a utilizzarlo, data l’ampia disponibilità di mezzi privati di pagamento digitale. Tra questi due estremi dobbiamo costruire uno strumento che sia efficiente, e nel disegno dobbiamo includere alcuni vincoli per evitare un ricorso eccessivo all’euro digitale come forma di investimento. Non vogliamo rimpiazzare le banche o determinare un cambiamento del sistema finanziario per effetto dell’emissione di euro digitale. I cambiamenti del sistema finanziario vi saranno se la normativa e se i mercati li determineranno”.