Perché bisogna riannodare le catene globali del valore
La crisi ci sta mostrando la fragilità di un sistema globalizzato basato sulla riduzione dei costi
Jerome Powell, presidente della Fed, ha dichiarato che ci sono strozzature sul lato dell’offerta che spingono in modo strutturale verso un aumento dei prezzi. La pandemia ha reso evidente la fragilità di un sistema mondiale iperglobalizzato. A partire dagli anni ’90, quando la rivoluzione delle Ict ha fatto crollare i costi di coordinamento tra attività dislocate anche a grande distanza, si è aperta la fase chiamata da Richard Baldwin “the Second Unbundling”, il secondo spacchettamento, le catene globali del valore (Cgv).
Questa profonda riorganizzazione della produzione si è accompagnata a due altri cambiamenti importanti: l’esaltazione del valore per gli azionisti (shareholders value) e la diffusione della lean production. Negli ultimi 30 anni le imprese sono state preda dell’ossessione per l’efficienza e la riduzione dei costi. Anche differenze minuscole di costo tra una fonte di fornitura e un’altra hanno indotto riorganizzazioni drastiche delle catene del valore. I manager si sono lanciati in una maniacale ricerca di fonti più economiche di input: lavoro, semilavorati, materie prime ma anche di minori tasse, regole più lasche e sistemi istituzionali meno occhiuti. Un’ininterrotta gara per mettere su architetture complicatissime che riducessero i costi, facessero crescere i margini e assicurassero dividendi adeguati agli azionisti, nonché stock option ai manager. Al contempo, la lean production, è divenuto “il” modello di produzione in tutti i settori. Anch’esso è un sistema per tagliare i costi. Essenzialmente si basa sull’eliminazione delle scorte e sul “just in time”. Ciò fa sì che nel caso di interruzione delle catene globali non vi siano scorte alle quali ricorrere. Un ulteriore fattore di fragilità, quindi.
Il secondo unbundling ha certo consentito lo sviluppo di nuovi paesi e ha quindi redistribuito ricchezza a vantaggio di molti paesi emergenti, ha allargato i mercati. Le imprese si sono concentrate sulle fasi nelle quali avevano un vantaggio competitivo, ed è stato occasione di efficienza micro. Ma l’eccessiva focalizzazione sull’efficienza di breve termine ha comportato costi in termini di sicurezza, sostenibilità e resilienza che oggi ci appiano più chiari. Più una catena del valore è complessa più alto è il rischio. Un’interruzione di una qualsiasi fase può avere un impatto su tutta la catena, questo può comportare scarsità e quindi prezzi che salgono. Nei casi peggiori i colli di bottiglia possono avviare effetti domino e portare al blocco di tutto un settore (es. i chip).
Le imprese per loro natura tengono conto dei propri rischi, ma non si preoccupano dei rischi sistemici che un simile modello impone all’economia nel suo complesso. Le industrie occidentali dipendono oggi in modo essenziale da paesi lontani per semiconduttori, batterie a larga capacità, materiali e minerali critici, ingredienti farmaceutici e altri input strategici. La fragilità delle Cgv si trasforma in spinte inflazionistiche ma soprattutto pone problemi di sicurezza e di sovranità tecnologica e produttiva. Abbiamo confidato eccessivamente nel fatto che lo spacchettamento fosse solo un problema interno alle imprese e che il mondo potesse funzionare sempre come un orologio ben oliato. Nello stesso tempo però i governi di vari paesi asiatici hanno seguito politiche industriali che hanno favorito la concentrazione in loco di intere industrie produttrici di input strategici. Una maggiore diversificazione delle fonti di approvvigionamento accrescerebbe la sicurezzama comporterebbe perdite di efficienza per le nostre imprese. E comunque non si può cambiare modello di produzione e approvvigionamento dall’oggi al domani.
Il tema è attuale. La Francia nel suo Pnnr ha dedicato molte pagine al tema della sovranità tecnologica e del re-shoring. L’amministrazione Biden ha appena sfornato un volume di 250 pagine su: “Building resilient supply chains; revitalizing American manufacturing, and fostering broad-based growth”. Serve un maggiore coordinamento a livello europeo e tra Ue e Usa per affrontare insieme il tema. Va fatta una riflessione su quanto i sistemi di tassazione e le regole spingano verso l’arbitraggio localizzativo. Su un piano più generale, c’è la questione dello short termism. Ripensare oggi al rapporto tra interesse degli azionisti e altri stakeholder (dipendenti, innanzitutto) potrebbe attenuare l’eccessivo orientamento verso il profitto di breve termine e il semplice taglio dei costi.