Cosa c'è di errato nell'appello dei sindaci contro le delocalizzazioni
La protezione del lavoratore e del suo reddito è sacrosanta. Ma la soluzione proposta da Lepore, Manfredi e Nardella è sbagliata, per diverse ragioni
Qualche giorno fa i sindaci di tre importanti città italiane – Matteo Lepore (Bologna), Gaetano Manfredi (Napoli) e Dario Nardella (Firenze) – hanno scritto una lettera al premier Mario Draghi, pubblicata da Repubblica, nella quale chiedono al governo di intervenire contro le chiusure di stabilimenti produttivi. L’iniziativa nasce da alcuni specifici casi di crisi: Saga Coffee nel bolognese, Whirlpool a Napoli, Gkn a Firenze. In sintesi, l’appello rimanda sostanzialmente a un mix di carota (sussidi), bastone (vincoli amministrativi) e moralismo (cattive le imprese che chiudono) per mantenere l’occupazione nei territori.
È d’obbligo premettere che la protezione del lavoratore e del suo reddito è sacrosanta. Ma è la soluzione a essere sbagliata, per diverse ragioni.
Primo, la lettera riflette una visione novecentesca dei rapporti tra capitale, lavoro e politica, con quest’ultima che indirizza la dialettica tra i primi due verso equilibri distributivi ritenuti socialmente meritori. Piaccia o meno, le cose non stanno più così, e non da ieri. Il capitale è molto più mobile del lavoro e, inevitabilmente, si sposta tra territori e paesi alla ricerca delle condizioni migliori. E’ un semplice dato di realtà e ignorarlo non può che portare a soluzioni non solo inutili ma anche dannose: eventuali restrizioni alla libertà di localizzazione avrebbero l’effetto di intrappolare (per quanto?) le imprese già insediate ma frenerebbero nuovi investimenti con un bilancio senz’altro negativo nel lungo periodo.
Secondo, misure di questo tipo, oltre a essere inefficaci, sarebbero anche inefficienti perché costringerebbero le imprese a scelte subottimali. Tra l’altro, una parte non trascurabile della crescita della produttività, cosa di cui l’Italia ha un disperato bisogno, è legata all’uscita dal mercato delle imprese meno efficienti e alla riallocazione di capitale e lavoro verso quelle migliori. Impedire la chiusura di stabilimenti poco produttivi ostruirebbe questo canale.
Terzo, le misure anti-delocalizzazione sarebbero anche inique. Riguarderebbero infatti solo i lavoratori di alcune grandi imprese – oggi quelle illuminate dalla luce dei media e che, forse proprio per questo, mobilitano così tanto la politica – lasciando in ombra sia le moltitudini silenziose dei lavoratori delle piccole imprese sia i disoccupati che beneficerebbero dell’ingresso nel mercato di nuove imprese, qualora queste non siano scoraggiate da eventuali norme anti-delocalizzazione.
Quarto, in Italia abbiamo già avuto esperienza di aiuti pubblici per supportare le aree in de-industrializzazione. Per esempio, i contratti d’area, attivi dalla fine degli anni ’90, prevedevano incentivi agli investimenti (da erogarsi con il coinvolgimento dal basso di comuni e regioni, proprio come auspicato dai tre sindaci). Ebbene, un recente paper di tre economisti della Banca d’Italia (“A new phoenix? Large plants regeneration policies in Italy” di Accetturo, Albanese e D’Ignazio) mostra che l’iniziativa non ha accresciuto né investimenti né occupazione.
Ma allora, cosa può fare la politica? Molto. Innanzitutto, investire in misure di protezione e riqualificazione del lavoratore. Poi, migliorare le condizioni esterne per l’attività d’impresa: istruzione (dove il ritardo è drammatico), legalità, funzionamento della giustizia civile, qualità della pubblica amministrazione, trasporti, qualità della vita nelle città, finanziamento e valutazione delle università (non per nulla alcuni di questi obiettivi sono stati ripresi dal Pnrr). Sono temi a minor ritorno di popolarità e che richiedono di attaccare lobby fortemente incistate nella nostra struttura economica: un compito certamente più arduo e meno redditizio in termini di voti rispetto a stigmatizzare l’impresa di turno.
Infine, la politica può prestare laicamente maggiore attenzione alla valutazione degli interventi passati, come per esempio i contratti d’area, per evitare nuove politiche fallimentari. Insomma, può dare il suo contributo affinché il dibattito di politica industriale entri finalmente nel XXI secolo.
*Guglielmo Barone, Università di Bologna