Il mondo delle authority
L'Antitrust e i suoi fratelli. Un viaggio tra i guardiani delle regole
Ammontano a diciotto le istituzioni indipendenti, ognuna con le sue funzioni e finalità. Servono davvero tutte? Dalla Consob all’Agcom, questo mondo di acronimi è un po’ confuso
Il senatore John Sherman eletto nel collegio dell’Ohio, repubblicano, già segretario al Tesoro, si era distinto per la sua foga oratoria contro “i socialisti, i comunisti, i nichilisti” e i sindacati egemonizzati da cellule indottrinate dai seguaci dell’ebreo tedesco Karl Marx. Non poca fu la sorpresa quando nel 1888 venne nominato a presiedere la commissione del Congresso incaricata di tagliare le unghie ai “baroni predatori” che guidavano i grandi trust dell’acciaio, delle ferrovie e soprattutto del petrolio. Aveva cambiato bandiera, era uscito di testa, a 65 anni soffriva di delirio senile?
Sherman non ce l’aveva con il capitalismo, ma temeva che il potere smisurato dei grandi gruppi provocasse moti di protesta e risentimento popolare facile preda della propaganda socialista. L’America doveva quindi favorire “una equa concorrenza” per sfuggire alle sorti della Vecchia Europa in balìa della lotta di classe e dell’anarchia. Il monopolio non solo minacciava “la libertà industriale dei cittadini”, ma era l’anticamera del socialismo: questo punto fermo ispirò la legge che porta il suo nome approvata nel 1890 dalla quale è nato l’antitrust il primo e più importante guardiano delle libertà economiche. La storia mostra che il socialismo ha perso la sua più che secolare battaglia e il capitalismo ha vinto anche grazie al contributo del senatore Sherman.
Un secolo dopo, e dopo la divisione della Standard & Oil dei Rockefeller, dopo lo spacchettamento telefonico della At&t, l’era digitale si apre con il clamoroso processo del 1998: “Il popolo americano contro Microsoft”. Il popolo americano trionfa in tribunale, ma prevale la Realpolitik e il colosso di Redmond non viene smembrato. Nel 2004 è stato Mario Monti, per conto dell’Unione europea, a colpire duramente con una multa da ben 497 milioni di euro la creatura di Bill Gates, la quale, anziché essere uccisa dai “trustbuster”, i cacciatori di monopoli, ha cambiato pelle ed è più forte e potente di prima. Come mai? Sarà la sindrome di Charlot con il poliziotto sempre beffato dal vagabondo pie’ veloce? O sarà che le leggi e i tribunali diventano una frustata benefica per chi è capace di approfittarne?
Il mercato italiano
In Italia è arrivato per primo il guardiano della Borsa, nel 1974: la Consob, seguita nel 1982 dall’Isvap, ora Ivass, che vigila sulle assicurazioni. Per l’Antitrust bisogna aspettare fino al 1990. Da quel momento in poi le sentinelle si sono moltiplicate, persino dove il mercato è sempre rimasto l’utopia dei pochi e lo stato la speranza (per lo più mal riposta) delle moltitudini. Il passaggio faticoso dal controllo diretto alla regolamentazione ha trasformato via via l’Italia in un fertile terreno per le autorità, come vengono chiamate queste istituzioni messe a tutela della società civile.
Amazon spadroneggia? L’Antitrust commina una pesante multa (ben un milione di euro). Capitalisti e banchieri si contendono il grande salvadanaio degli italiani cioè le Assicurazioni generali, la Consob si veste da Salomone. Le tariffe salgono? Rivolgiamoci all’autorità elettrica. L’ex monopolista telefonico deve cedere la rete? L’autorità delle telecomunicazioni non può tacere. E lo sciopero generale che poi è parziale? Ecco la commissione di garanzia. Un po’ arbitri, un po’ giocatori, molto spesso spettatori, i “cani da guardia” abbaiano, ma mordono anche?
Le autorità amministrative indipendenti nascono per esercitare funzioni di controllo e regolamentazione in settori considerati particolarmente sensibili o ad alto contenuto tecnico. Debbono essere rigorosamente autonome da qualsiasi potere politico ed economico, hanno poteri normativi, di vigilanza, sanzionatori e di risoluzione delle controversie. Non c’è una disciplina unica che ne regoli il funzionamento e i criteri con i quali sono nominati gli organi direttivi sono una contraddizione non risolta: come si fa a essere indipendenti dal potere politico se la scelta degli uomini ricade sul governo o sullo stesso parlamento? Per garantire la loro neutralità si è scelta spesso una durata del mandato superiore a quella della legislatura (ad esempio 7 anni come all’Antitrust), in molti casi l’incarico non può essere rinnovato e sono previste clausole di incompatibilità con altre nomine, ma sono palliativi.
Data la natura di questi enti e la delicatezza dei settori in cui vanno a operare, la prassi è stata quella di scegliere persone con grande esperienza. Ma non è sempre così. L’età media dei presidenti è superiore a sessant’anni, negli attuali direttivi le donne sono meno di un terzo. Criteri a parte, governi e parlamenti, compresa l’ultima legislatura, non hanno mostrato di avere a cuore il buon funzionamento delle authority. Ai vertici dell’Antitrust sono rimasti in due, il terzo seggio è vacante perché Gabriella Muscolo ha concluso il proprio mandato. All’Ufficio parlamentare per il bilancio il presidente Giuseppe Pisauro è scaduto da due anni. Solo per fare due esempi.
Glossario for dummies
Ci sono oggi 18 autorità (per il momento) ciascuna con un acronimo utilizzato nel lessico politico-burocratico che le rende spesso incomprensibili. Il catalogo è questo:
Anvurs - Agenzia di valutazione del sistema universitario, 7 membri dell’organo direttivo nominati dal ministero dell’istruzione.
Aran - Agenzia per la rappresentanza negoziale della Pubblica amministrazione, 5 membri, il presidente viene nominato dal ministero, due sono scelti dal parlamento uno dalle regioni e uno dall’Anci (comuni).
Ansv - Agenzia sicurezza del volo, 4 membri nominati dal governo.
Ansf - Agenzia per la sicurezza delle ferrovie, 5 membri scelti dal governo.
Art- Autorità di regolazione dei trasporti, tre componenti, nominati dal governo.
Arera- Autorità di regolazione per l’energia, 5 al vertice deciso dal governo.
Agcm- Autorità garante della concorrenza e del mercato, tre nominati dai presidenti di Camera e Senato.
Agia - Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza uno solo al comando nominato dai presidenti di Camera e Senato.
Anac - Autorità nazionale contro la corruzione, 5 scelti dal governo.
Agcom - Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, 5 membri, il presidente nominato dal presidente del consiglio, due membri dalla Camera e due dal Senato.
BI - Banca d’Italia, 5 membri su proposta del presidente del consiglio previa delibera del cdm.
Cgs - Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, 5 membri dai presidenti di Camera e Senato.
Covip - Commissione di vigilanza sui fondi pensione, 3 dal ministero del Lavoro.
Consob - Commissione per le società e la Borsa, 5, presidente del Consiglio previa delibera del consiglio dei ministri.
Gnpl - Garante dei detenuti, 5, presidente del Consiglio previa delibera del cdm.
Gpdp - Garante della privacy, 4 dirigenti espressi dal Parlamento.
Ivass - Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, 3 membri scelti dalla Banca d’Italia di concerto con il Mise.
Upb - Ufficio parlamentare di bilancio, 3 membri, nominati dai presidenti di Camera e Senato.
Può essere improprio collocare in questo elenco la Banca d’Italia. Essa da un lato è inserita nel Sistema europeo delle banche centrali quindi è in stretta relazione con la Banca centrale europea, dall’altro ha tra i propri azionisti anche gli istituti bancari privati. Tuttavia in via Nazionale resta il posto di guardia per il sistema bancario.
Come si può notare dal nostro elenco, le nomine sono politiche e molti di questi enti sono legati direttamente a un ministero o dalla presidenza del Consiglio (come l’Anac).
Sono davvero indipendenti? Quando nel 2019 non si è riusciti a trovare l’accordo sui nomi, imponendo ad Agcom e al Garante per la privacy un sorta di impasse, la domanda ha avuto una risposta scontata: la tendenza a indirizzare il loro orientamento è molto forte. Paolo Savona, economista di valore, è arrivato al vertice della Consob più che grazie ai propri meriti come risarcimento per non averlo voluto ministro dell’Economia. Il capo dell’Antitrust viene scelto dai presidenti del Senato e della Camera affinché sia una decisione di valore istituzionale, non partigiana ed entro certi limiti non politica. Senonché, incerti sul da farsi, Elisabetta Casellati e Roberto Fico hanno imboccato una strada inusuale: le candidature dal basso invitando gli interessati a inviare i loro curricula. Ne sono arrivati 112 e a quel punto, per eccesso di trasparenza, è spuntato Roberto Rustichelli, un magistrato ordinario del tribunale di Napoli con il pedigree a posto, ma poco noto e con scarsa esperienza nel campo della concorrenza (al netto del tribunale partenopeo delle imprese). Egli stesso, appresa la notizia, stentava a crederci, mentre i soliti complottisti speculavano sulla napoletanità di Rustichelli e Fico, il quale s’è affrettato a precisare di non conoscerlo e di non averlo mai incontrato.
Non siamo all’uno vale uno tanto caro ai pentastellati, ma nemmeno all’esclusivo merito che piace ai mercatisti. Non si sfugge, inoltre, alla tentazione di usare le autorità come scudo contro gli invasori stranieri o italiani che siano. Vincent Bolloré si è lamentato di essere finito nella morsa di Antitrust, Consob e governo a difesa di Mediaset e a protezione di Telecom, considerati “campioni nazionali”. E i francesi quanto a questo la sanno lunga.
I costi delle authority: un tesoro da un miliardo di euro
L’autonomia ha naturalmente la sua variante economica tutt’altro che secondaria. Le diciotto autorità indipendenti costano circa un miliardo di euro l’anno, impiegano tremila persone oltre la metà nelle prime cinque (Antitrust, Arera, Consob, Agcom e Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici). La Consob ha 627 dipendenti e 67 dirigenti, però è l’unica che si finanzia completamente con le multe riscosse. Ognuna è dotata di regole interne, parametri retributivi del personale, numero di componenti e criteri di nomina differenti l’uno dall’altra. I tagli alla spesa pubblica hanno penalizzato anche molti guardiani, pochi sono riusciti a mantenere condizioni “competitive”, altri passando di punto in bianco dalle ombrose stanze del ministero alle luccicanti scrivanie di una authority hanno senza dubbio guadagnato in salute e stipendio. In genere si tende ad allinearsi al tetto massimo per i dirigenti pubblici, cioè 240 mila euro annui ai quali si aggiungono magari fringe benefits tipo l’auto blu.
Il presidente della Consob Paolo Savona riceve un po’ meno, 187 mila euro, e Giuseppe Busia che guida l’Anac, 180 mila euro. Si potrebbe far ricorso per tutti all’autofinanziamento, tuttavia se passa attraverso un contributo dei soggetti controllati, c’è il rischio di cadere da una dipendenza all’altra. Nessun dubbio sulla virtù della moglie di Cesare, ma il rischio di privilegiare all’interesse pubblico quello privato è nelle cose. Si discute anche di un finanziamento “misto”, però non potrebbe funzionare per il garante per la privacy, l’Anac o il garante per i diritti dei detenuti.
Tante sigle, poca chiarezza: servono davvero tutte?
Servono davvero tutti questi apparati, non bisogna forse accorpare le Authority? Se ne parla già da un po’, finora senza esito. Alberto Pera, primo segretario generale dell’agenzia per la concorrenza, dove è rimasto dieci anni, e attuale presidente dell’Associazione antitrust italiana, ci invita alla cautela: sono soggetti diversi per funzioni e per obiettivi. L’Arera o l’Agcom decidono su prezzi, tariffe, infrastrutture, non è questo il compito della Consob o dell’Agcm, tra l’anticorruzione e la digitalizzazione c’è una ovvia differenza. Tuttavia è necessaria una riflessione profonda così come sul modo di nominare gli organismi dirigenti. E, dopo l’entusiasmo da neofiti che ha spinto alla moltiplicazione, con il rischio di sovrapposizioni o di creare superfetazioni dei ministeri, è arrivata l’ora di sfoltire in base alle priorità, lasciando il resto alla normale amministrazione e, se del caso, ai giudici che, come sappiamo, certo non mancano e a più livelli.
Le autorità debbono vigilare, questa è la loro funzione, stabilire le norme spetta al governo e al Parlamento. E quando il legislatore non è in grado di decidere, quando è in ritardo rispetto alla velocità con la quale cambia la realtà? Ciò è vero per i mercati, per le tecnologie ma anche per quel che riguarda i comportamenti sociali, il cambiamento del senso comune, delle idee e della sensibilità collettiva. Sempre più spesso un mondo che si muove alla velocità di un click mette le autorità di fronte a scelte che anticipano o spiazzano la politica. Così, le loro decisioni assumono un valore che va oltre il mandato ricevuto sino al rischio di portare a profili di incostituzionalità. Una scorciatoia è fare ricorso, come avviene ormai con sempre maggior frequenza, a strumenti informali (segnalazioni, raccomandazioni, avvertimenti) che aggirano le prerogative del legislatore. Ciò non risolve il dilemma, semmai lo rende più chiaro. E lo dimostra proprio la rivoluzione digitale.
“Internet è il terreno del conflitto sociale del Ventunesimo secolo”, sottolinea Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust dal 2011 al 2018, in una intervista pubblicata dal Foglio nel 2017, “questa ondata della quale vediamo solo adesso gli effetti pervasivi, ha creato i nuovi luddisti, i nuovi distruttori di macchine. Dunque, occorre assecondare il cambiamento trovando soluzioni per ridurre i costi e lenire le ferite, ma mettendo un argine al neoluddismo. Se la produzione dell’informazione può essere aperta e decentrata al massimo, lo stesso non si può dire della sua diffusione che passa attraverso piattaforme che sono in numero limitato e sempre più controllate”. La rivoluzione digitale impone una velocità di reazione prima impensabile, per questo Pitruzzella ha aveva proposto la creazione di una rete di istituzioni autonome coordinate da Bruxelles, agili e capaci di agire con estrema sollecitudine, senza attendere i tempi dei tribunali non appena spuntano notizie false, infondate, inattendibili o diffamatorie. “Nessun monitoraggio – ci spiega – nessun controllo ex ante, tanto meno nessuna censura, tuttavia come è accaduto in altre fasi storiche, in altre rivoluzioni tecnologiche che hanno trasformato l’umanità, ci sono compiti che spettano ai poteri pubblici”.
La multa comminata ad Amazon ha riproposto una discussione che dura da oltre un secolo e si è imposta nel mondo anglosassone, quello che più ha sviluppato il mercato e le sue istituzioni. Giuliano Amato è stato tra i primi in Italia a ragionarci su e lo ha sintetizzato nel contrasto tra la common law, secondo la tradizione giurisprudenziale inglese e lo Sherman Act che introduce innovazioni all’americana. La prima tutelava la libertà di contratto: “Un’intesa fra venditori sul prezzo, volontariamente stipulata, era inattaccabile in giudizio pur rimanendo per converso possibile per i consumatori ‘uscire dai loro negozi’ e trovarne un altro dove comprare lo stesso prodotto – scrive Amato – Con lo Sherman act i divieti divennero molto rigidi, in nome non più della sola libertà di contratto, ma della concorrenza. E questa richiedeva che l’incontro fra venditori e acquirenti non fosse in alcun modo alterato da intese o da precostituite condotte unilaterali”.
Ciò per difendere da un lato i consumatori con il prezzo e la qualità dell’offerta, dall’altro il mercato, evitando posizioni indebitamente dominanti, la libertà di scelta e il diritto di competere alla pari garantito a tutti i produttori. Alfred Marshall pubblica la sua opera più importante, I principi dell’economia, nel 1890, lo stesso anno dello Sherman Act, e insiste su un principio chiave: ogni alterazione del punto d’incontro tra domanda e offerta genera inefficienza. La Corte suprema americana sentenzia che si tratta del principio economico su cui si basa anche la libertà politica. La concorrenza, così, rappresenta il presidio economico della democrazia come il pluralismo lo è per la politica. Questa dimensione metaeconomica fa parte di tutta la “cultura dell’antitrust” sin dalle origini, ma oggi viene per lo più trascurata se non ignorata nel dibattito.
La realtà è cambiata, il mercato si è fatto globale, si sono diffuse le economie di scala, le intese tra produttori e le concentrazioni spesso favoriscono l’innovazione, quindi vanno analizzate caso per caso. Ma che cosa succede se più produttori di beni concorrenti ricoprono l’intero mercato al dettaglio con reti di distribuzione esclusive, cosicché nessun altro può entrare? Questo è il caso di Amazon. O se l’impresa più forte nel suo settore ostacola i concorrenti più deboli e blocca l’ingresso sul mercato di altri produttori? Questo era il caso di Microsoft. Tra consumatori e concorrenza, insomma, non sempre gli interessi coincidono.
Dall'economia mista all'economia "confusa"
Nell’Europa dei monopoli pubblici e del dirigismo statale, l’Antitrust arriva nel 1957, in Italia trent’anni dopo e non per distrazione. Proprio l’Italia, insieme alla Germania, è il paese che più ha tutelato e favorito per legge accordi, intese orizzontali, consorzi. Ma mentre i tedeschi hanno cambiato marcia seguendo un sentiero in parte diverso da quello americano, sotto l’influenza ordo-liberale, il sistema italiano ha continuato a battere altre strade: gli incentivi pubblici secondo piani di politica industriale, la programmazione, la riserva allo Stato di attività strategiche, l’impresa pubblica nazionale e locale.
L’Italia è passata “dall’economia mista all’economia confusa”, ha scritto trent’anni fa Guido Rossi, tra i promotori della legislazione antitrust, condannando l’approccio immaturo al mercato. Val la pena rileggere le sue parole che non hanno perduto attualità: “Vi è chi ritiene che il mercato si possa imporre dall’alto con un atto d’imperio dello stato-guida, una impostazione che risale a Pietro il Grande il quale regalò le imprese a sudditi apparentemente qualificati, ma non riuscì a creare il mercato”. Lo stesso è accaduto nella Russia post comunista con la differenza che i sudditi qualificati erano i nuovi boiari, gli oligarchi. “Vi è chi considera il mercato il luogo delle scorribande e delle più impunite speculazioni e pensa che il capitalismo postindustriale possa avere comportamenti da Far West. E vi è chi ha cercato di individuare regole e discipline elementari tendenti soprattutto ad evitare le degenerazioni. E’ quello che i paesi democraticamente meglio strutturati hanno fatto”. E tuttavia oggi Guido Rossi sarebbe d’accordo che lo hanno fatto a fatica e con grandi contraddizioni.
Solo con il trattato di Maastricht nel 1992 la concorrenza è diventata un principio fondamentale dell’Unione europea, un secolo dopo rispetto agli Stati Uniti. Con alcune differenze fondamentali, come l’abuso di posizione dominante, concetto chiave dell’antitrust europeo. Negli Usa è possibile a un’impresa danneggiare non i consumatori, ma i concorrenti, anche quelli più deboli, finché non diventa un vero monopolio a quel punto viene smantellata, come Standard & Oil nel 1911 o la At&t. L’autorità europea interviene in corso d’opera, ma non ha un simile potere.
“I tribunali in Europa – spiega Alberto Pera – hanno dato sempre molta importanza alla correttezza, alla equa competizione, come criterio fondamentale per giudicare il comportamento di una impresa. A differenza dalla scuola di Chicago che considera soprattutto l’efficienza e il benessere dei consumatori. Introdurre il criterio della equità significa, nella concezione europea, dare una protezione speciale ai più piccoli protagonisti del processo competitivo, prevenire l’espansione delle imprese maggiori, e anche riequilibrare le conseguenze sulla distribuzione del reddito provocate da un aumento del potere di mercato”. Non solo. In America decide il giudice su denuncia dei privati. Nella Ue decide la Commissione e si fa ricorso al tribunale e poi alla Corte di giustizia.
In Italia l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, seppur nominata dal governo è indipendente dall’esecutivo, non risponde al parlamento, è sottoposta peraltro a sindacato giudiziale, ma non ha essa stessa natura giudiziaria. Il suo compito è duplice: colpire le intese, gli abusi di posizione dominante, le concentrazioni, con multe fino al 10 per cento del fatturato, ma senza sanzioni penali, e segnalare al governo e al parlamento (con atti, in questo caso, ovviamente sprovvisti di effetti vincolanti) leggi, regolamenti, iniziative legislative. “L’Italia è un paese dove ancor oggi si preferisce garantire il consumatore più con le tariffe che con il suo diritto di scelta, dove è ritenuto disdicevole per i professionisti portare via i clienti ai colleghi, dove in più settori la spartizione del mercato, per garantirne una quota a ciascuno, è ritenuta una prassi normale”, conclude amaramente Amato. Si tratta di un approccio che si estende al di là dei confini del mercato e riguarda il rapporto dei cittadini tra loro e con lo stato, una prassi in apparenza consociativa, in realtà collusiva che penalizza l’individuo e i suoi diritti nei confronti di soggetti altri, siano essi l’impresa, l’istituzione, il gruppo, lo stato. E così le autorità nate per sciogliere lacci e lacciuoli, alla fine della fiera, ne restano imprigionate.