La Fed e la Bce, due gemelli diversi davanti all'inflazione
Per capire le diverse politiche monetarie tra le due sponde dell'Atlantico bisogna guardare all'inflazione di fondo: negli Stati Uniti è in netta accelerazione mentre nell'area Euro in lieve aumento
Nel corso degli ultimi mesi, l’inflazione negli Stati Uniti e nell’area euro ha raggiunto livelli che non si registravano dagli anni ’80, inusuali per intere generazioni. L’inflazione americana, misurata con l’indice CPI è stata del 6,9% sui 12 mesi terminati a novembre, mentre l’inflazione nell’area euro, misurata con l’indice HICP, è stata del 4,9%. Dato il livello particolarmente alto di inflazione, in molti hanno rivolto l’attenzione alle azioni di politica monetaria delle banche centrali che dovrebbero avere come obiettivo primario la stabilità dei prezzi. Sebbene, come detto, l’inflazione sia particolarmente elevata su entrambi i lati dell’oceano le recenti decisioni delle banche centrali (Federal reserve e Banca centrale europea) sono state molto diverse. Da un lato, la Fed ha segnalato un sentiero di politica monetaria molto più stringente di quanto fatto nel meeting di novembre. Il nuovo piano della Fed prevede infatti di azzerare l’acquisto di titoli di stato entro marzo 2022 e di procedere a tre rialzi dei tassi di riferimento nel prossimo anno solare. Non solo, ma uno dei governatori (Christopher J. Waller) si è spinto oltre ipotizzando una riduzione del bilancio della Fed contestualmente al rialzo dei tassi facendo quindi intuire un’azione anche più aggressiva di quanto annunciato da Jerome Powell due giorni prima. Dall’altro lato dell’oceano invece la Bce è rimasta accomodante e non ha segnalato rialzi dei tassi nel medio termine. In sintesi, inflazione elevata in entrambi i continenti ma politiche monetarie divergenti. Come si spiega questo apparente paradosso?
Per capire il perché occorre guardare l’andamento dell’inflazione di fondo (ovvero al netto dei beni energetici ed alimentari) nei due continenti. Concentrarsi sull’inflazione di fondo è esercizio diffuso tra gli economisti non perché l’andamento del prezzo dell’energia sia ininfluente per le famiglie ma perché la maggiore volatilità dell’energia e dei beni alimentari rende l’indice generale dei prezzi una guida poco affidabile (a differenza della componente di fondo) per prevedere l’inflazione totale futura, ovvero l’obiettivo delle banche centrali. L’inflazione di fondo degli Stati Uniti è correlata a quella dell’area Euro ma è generalmente più elevata a riflesso di diversi fondamentali (maggiore crescita dell’economia, maggiore crescita salariale, etc.). La differenza cruciale tuttavia è la recente divergenza della componente di fondo: negli Stati Uniti è in netta accelerazione da inizio 2021 ed è ben oltre il target della Fed mentre nell’area Euro è in lieve aumento ma resta comunque ben lontana dal target della Bce. Non solo, ma vi sono buone ragioni per ritenere che la vistosa accelerazione negli Stati Uniti sia il risultato di shock specifici dell’economia americana. Se si pensa infatti a quanto accaduto negli ultimi due anni, entrambi i continenti hanno avuto shock sia dal lato della domanda che dell’offerta generati dalla pandemia ed entrambe le zone hanno avuto politiche monetarie molto espansive. Tuttavia solo in un caso le politiche fiscali a mezzo di trasferimento diretto alle famiglie sono state così generose da risultare in un aumento del reddito disponibile netto (prima volta durante una recessione) che si è poi tradotto in maggiori consumi disproporzionatamene diretti all’acquisto di beni durevoli. Non a caso, l’inflazione di fondo americana è stata trainata proprio dai beni durevoli a cui si sono aggiunte solo recentemente altre categorie.
La diagnosi è quindi abbastanza chiara ma le previsioni per i prossimi 12-24 mesi rimangono incerte poiché rimane incerto l’evolversi della pandemia. La Fed ha (giustamente) segnalato di non poter tollerare l’attuale livello di inflazione e di essere pronta ad agire nel 2022 qualora gli aumenti dei prezzi di fondo risultassero persistenti. La cattiva notizia è che, per quanto necessaria, la stretta monetaria della Fed (a cui va aggiunta una possibile stretta fiscale e la stretta monetaria già attuata da diverse altre banche centrali) potranno finire col rallentare l’attuale espansione mondiale.
Le buone notizie per quanto riguarda l’Italia sono due. La prima è che, come detto in apertura, il rialzo dei tassi nell’area Euro non appare vicino. L’Italia è un paese ad alto debito (seppur con maturità media piuttosto elevata) e come tale più esposto all’andamento dei tassi. Se la componente di fondo dell’inflazione in Italia e nell’area Euro rimarrà contenuta nei prossimi 12 mesi come crediamo, la Bce rimarrà in vigile attesa. La seconda è che l’Italia arriva da due decenni di bassa crescita e bassa inflazione. Una maggiore (e moderata) inflazione potrebbe venirci utile se associata a maggiore crescita per ri-ancorare le aspettative a un livello più elevato e finalmente in linea con il target della banca centrale. L’augurio è che non si sprechino i prossimi mesi per attuare delle riforme che possano rendere il paese meno esposto agli shock futuri.