indagine
Farmacie, cliniche e non solo. Chi sono i ricchi figli della pandemia
Industrie farmaceutiche e investitori privati. La Sanità in Italia ora fa gola alla grande finanza. Ma occorre maggiore programmazione per sostenere gli ospedali pubblici. In gioco non c’è solo il Fatebenefratelli
Pietro Soriano era un soldato di ventura, uno dei tanti in quel secolo di ferro e di fuoco, il secolo in cui trionfa il Rinascimento, ma gli uomini si massacrano per l’imperatore, per il Papa e per Martino il monaco ribelle. Nel 1555, giunto alla soglia dei 40 anni, ha un’illuminazione: anche Pietro, come Ignazio di Loyola, abbandona la spada e indossa il saio, ma invece di arruolarsi nella Compagnia di Gesù, si mette al seguito di Giovanni Ciudad il quale nel 1537 a Granada aveva fondato un ospedale. Aperto a tutti anche se con soli 46 posti letto, viveva con le elemosine che il frate raccoglieva per le vie della città dicendo: “Fate bene, fratelli, a voi stessi! Fatelo per amor di Dio”.
Alla sua morte, nel 1550, alcuni seguaci sbarcano a Napoli, allora possedimento spagnolo, per aprire ospedali seguendo l’ispirazione del maestro che verrà poi conosciuto come San Giovanni di Dio. Soriano si unisce a loro e decide di portare le parole e le opere giovannee anche nella sede di Pietro. Nel 1571 inaugura il primo ospedale Fatebenefratelli in piazza di Pietra, poi, nel 1587, compra il vecchio monastero sorto nell’isolotto in mezzo al Tevere che divide in due Roma, sulle rovine, stando alla leggenda, del tempio di Esculapio. Per oltre quattro secoli tra pestilenze, tumulti, rivoluzioni, i fratelli hanno fatto del bene, il loro ospedale è stato il vanto dell’Urbe, protetto dalle amministrazioni laiche, massoniche persino, dopo la caduta del Papa re. Ma l’alba del nuovo millennio si è rivelata fatale.
Al termine di un calvario finanziario e anni di commissariamento nel 2015 la Congregazione San Giovanni di Dio getta la spugna, il tribunale di Roma ammette il Fatebenefratelli alla procedura di concordato preventivo. I debiti superano i 210 milioni di euro, 80 solo con le banche. La fondazione per la Sanità Cattolica istituita dal pontefice cerca un salvatore. E’ un banco di prova per la dottrina sanitaria annunciata da papa Francesco. Si fa avanti l’ex ministro Angelino Alfano, presidente del gruppo San Donato che fa capo alla famiglia Rotelli, deciso a investire 6 milioni di euro, ma la Congregazione per gli Istituti di Vita, il dicastero per gli ordini religiosi che deve autorizzare le operazioni al di sopra di un milione, non concede il nullaosta. Intanto entra in scena Leonardo Del Vecchio, che mette sul tavolo ben 150 milioni di euro attraverso la sua fondazione, che ha il 18,64 per cento dell’Istituto Europeo Oncologico fondato da Umberto Veronesi con il sostegno di Enrico Cuccia (Mediobanca ne possiede il 25 per cento).
Il Vaticano non è proprietario del Fatebenefratelli, alla Santa Sede, però, spetta il compito di dare, o negare, il beneplacito. Verrà creata una nuova società come impresa senza fini di lucro detenuta al 50 per cento dalla Fondazione per la Sanità Cattolica e al 50 per cento dalla Fondazione Del Vecchio. La newco, ha scritto Milano Finanza, sarebbe presieduta da monsignor Nunzio Galantino, sotto il controllo della Segreteria per l’Economia gestita dal padre gesuita Juan Guerrero Alves. La diocesi di Bologna guidata dal cardinal Matteo Zuppi, molto legato alla Comunità di Sant’Egidio, dovrebbe affiancare il Vaticano mettendo sul tavolo una quota consistente e attingendo alla eredità di Michelangelo Manini, che nel 2012 ha donato alla curia la sua azienda, la Faac, leader nei cancelli automatici.
Il Fatebenefratelli non è l’unico ospedale cattolico finito nei guai. Verso la fine del pontificato di Benedetto XVI l’Idi, l’Istituto dermatologico dell’Immacolata, una realtà d’eccellenza nel campo della dermatologia, venne coinvolto in uno scandalo di malversazioni, buchi di bilancio, con il rischio di licenziamenti in massa. Nel 2015 il Vaticano investì 50 milioni per salvarlo e altri soldi arrivarono, non senza polemiche, dalla Papal foundation. Sono in difficoltà anche diversi piccoli ospedali locali, e Casa sollievo della Sofferenza fondata da Padre Pio, punto di riferimento per i pazienti di buona parte del Mezzogiorno.
Cercasi dunque altri volenterosi uomini d’affari decisi a fare del bene, ma anche a partecipare al grande business della sanità che la pandemia ha reso strategico. I protagonisti sono molti e tutti di primo piano: oltre a Del Vecchio, il re degli occhiali, e alla banca d’affari fondata da Enrico Cuccia, c’è il principe dell’acciaio Gianfelice Rocca, proprietario del gruppo Humanitas, che fattura circa un miliardi di euro e del quale fanno parte figure di punta del mondo industriale lombardo come Diana Bracco e Paolo Scaroni; ci sono i Rotelli con il gruppo San Donato (due miliardi di fatturato, dopo la morte di Giuseppe, il figlio Paolo ha mantenuto la vicepresidenza insieme a Kamel Ghibri); c’è il Policlinico Gemelli gestito da una fondazione alla cui presidenza è stato nominato un banchiere di lungo corso come Carlo Fratta Pasini. Stiamo parlando dei più importanti ospedali privati italiani che figurano nella lista dei primi dieci in competizione con quelli pubblici come il milanese Niguarda, il bolognese Sant’Orsola, il San Matteo di Pavia.
La privatizzazione della sanità, le mani rapaci della finanza contro il diritto alla salute, se ne sono dette e scritte tante, ma la semplice verità è che di una industria stiamo parlando, una grande industria che soddisfa un bisogno sociale, anzi umano, che lotta per la vita e ha davanti a sé una natura matrigna. E’ una filiera complessa che va dall’università fino alle farmacie attraverso laboratori di ricerca e di analisi, luoghi di cura, fabbriche di medicinali, fino alla vendita al dettaglio. Occupa 700 mila lavoratori se prendiamo solo quelli inquadrati nel servizio sanitario nazionale, e a essi vanno aggiunti i 78 mila addetti delle 700 imprese farmaceutiche (l’Italia è da anni il maggior produttore di farmaci in Europa con un valore che supera i 32 miliardi di euro).
Negli ultimi dieci anni la farmaceutica è il settore manifatturiero a più alta crescita. Le aziende italiane sono molto innovative, ma piccole rispetto ai colossi mondiali. Le principali sono Menarini, con un fatturato di oltre tre miliardi di euro, Chiesi, Angelini, Bracco, Recordati, AfaSigma, ciascuna delle quali ha un giro d’affari che supera il miliardo di euro; briciole se si pensa ai 70 miliardi di Pfizer, un terzo dei quali incassati grazie al vaccino.
Di fronte alla pandemia abbiamo assistito alla disfatta dei medici di base, quelli delle Asl, una vera e propria resa incondizionata. A loro si sono sostituite sempre più le farmacie diventate semiambulatori: fanno i tamponi, inoculano i vaccini ormai di ogni tipo e grado, gestiscono non solo la distribuzione dei farmaci, ma la loro selezione, indirizzando i clienti-pazienti. Ci sono 19 331 farmacie, una ogni 3.129 abitanti, di poco sotto la media europea. E sviluppano ricavi per circa 25 miliardi di euro, il 60 per cento dovuto ai medicinali. Lavorano nel settore oltre 85 mila persone, di cui 62 mila dipendenti; tra questi ultimi, 46 mila farmacisti collaboratori, in prevalenza di sesso femminile. Secondo l’edizione del 2019 del rapporto Health at a Glance dell’Ocse, l’Italia è al terzo posto nella classifica dei 31 paesi più industrializzati con il maggiore numero di farmacisti attivi nel settore della distribuzione così come nell’industria e nella ricerca, circa 117 ogni centomila abitanti. Per le farmacie del territorio, invece, l’Italia scende all’11° posto, con 31 esercizi ogni centomila abitanti. Ne hanno di più la Grecia, la Spagna, il Belgio e la Francia, mentre ci seguono la Germania, il Regno Unito, l’Austria e l’Olanda. In linea con la media Ocse, infine, anche la spesa che passa attraverso le farmacie territoriali: sommati i medicinali con obbligo di ricetta e i Sop, l’Italia spende in media 590 dollari pro capite rispetto a una media Ocse di 164 dollari. Le farmacie comunali sono il 6 per cento concentrate nel centro-nord, il 60 per cento delle farmacie sono a conduzione individuale, il resto legate ad associazioni di farmacisti, mentre si fanno strada le grandi catene come Walgreens Boots Alliance controllata da Stefano Pessina.
Nell’industria della salute, ogni soggetto protagonista, sia pubblico sia privato, conserva la propria autonomia, anche territoriale, è un mondo ancora frantumato, un settore economico disperso, non decentrato, mentre la pandemia ha dimostrato quanto sia essenziale l’integrazione e quanto ancora c’è da fare per realizzare un sistema sanitario di fatto e non solo di nome. Quello italiano resta un modello statalista nel quale si sono inseriti i privati, non un vero modello misto. Parlare poi di privatizzazione è del tutto ridicolo.
L’Italia spende per la Sanità circa il 7 per cento del prodotto lordo, una quota inferiore a Germania (9,4 per cento), Francia (8,7 per cento) e Regno Unito (7,9 per cento), ma la spesa è fortemente squilibrata tra nord e sud. In Lombardia è pari al 5 per cento del pil, in Sicilia il 10 per cento come in Sardegna, Puglia, Molise. Sono dati raccolti prima del Covid. Nel 2020 c’è stato un aumento medio del 12 per cento, mantenendo gli stessi squilibri. E’ diminuita anche nettamente la spesa per esami, cure, visite specialistiche diverse dal Covid, con un vero e proprio crollo durante il lockdown. Tanto che proprio i più grandi ospedali hanno lamentato perdite anche consistenti. Fra poco sarà possibile capire l’andamento del 2021 e vedere se c’è stato un effetto moltiplicatore sugli occupati, sulla produzione, sugli investimenti.
La pandemia ha messo sotto stress l’intera filiera. E’ evidente la sofferenza degli ospedali che, a ogni picco di contagi, rischiano il collasso. Le strutture sono state ampliate (un esempio è il Policlinico Gemelli di Roma che ha acquistato la clinica Columbus per destinarla alla cura del Covid), ma non abbastanza, come dimostra quel che sta accadendo in queste settimane.
Si è parlato a lungo di potenziare la dimensione territoriale, ma non è successa nessuna rivoluzione alla base della piramide, ora si aspetta la manna che piove da Bruxelles. La collaborazione tra ricerca e cura è aumentata negli ospedali che già battevano questa strada (come allo Spallanzani di Roma o al milanese Sacco), ma non si è vista nessuna scelta di fondo in tal senso. E’ avvenuta invece una compensazione monetaria cercando in ogni modo delle scorciatoie. Si è messo in moto anche il mulino giudiziario: lo scandalo delle mascherine, i banchi con le rotelle e via di questo passo.
Repubblica, nella pagina di Palermo, racconta quel che cosa sta accadendo in Sicilia. Sono stati spesi 266 milioni di euro per mascherine, guanti, tamponi, ma solo per la metà si è ricorsi alle classiche gare. Aziende locali, aziende italiane di piccole dimensioni, multinazionali come Abbott (per i tamponi) hanno partecipato a un giro d’affari che non è destinato a interrompersi. Poi ci sono i rimborsi, arrivati al cento per cento a prescindere dai posti letto occupati, sia negli ospedali sia nelle cliniche private. Per le ambulanze il ricorso ai privati è indispensabile e i costi salgono. Ciò vale anche per i cantieri: più vanno a rilento più diventano cari. In Sicilia sono stati aperti 79 cantieri per circa 550 posti letto. Sono stati stanziati 128,8 milioni di euro divisi tra nove imprese. Secondo i dati del commissario Tuccio D’Urso, 7 cantieri sono giunti alla meta, in 44 i lavori sono in corso, i posti consegnati arrivano appena a 95. Ritardi, incompetenza, pasticci, intrighi? Si vedrà. Certo una macchina lontana dai principi dell’efficienza.
La Sicilia è come al solito un’eccezione? Inchieste giornalistiche in altre zone del sud, del centro e del nord possono senza dubbio mettere in luce una miriade di casi in cui le scorciatoie confinano con maledetti imbrogli, piccoli o grandi che siano. Non si tratta di lanciarci in un racconto sbirresco, tutto il contrario. Nel frattempo la variante omicron apre una nuova fase che viene sintetizzata con la formula “convivere con la pandemia”. Se è così, ci sarà bisogno di un approccio diversificato, talvolta persino mirato a seconda di esigenze molto diverse, ha scritto Dario Di Vico sul Corriere della Sera nel giorno dell’Epifania, quanto mai adatto alle rivelazioni. Una sanità à la carte mette sotto pressione tutti i livelli dell’intervento dalle decisioni politiche alle misure concrete: il governo centrale e i governi locali, gli ospedali e le farmacie, il controllo degli abusi e la rapidità d’intervento, tutto e tutti dovranno combinare efficienza e consenso. Occorrono regole certe, chiare, stringenti e nello stesso tempo una grande flessibilità nell’applicarle. Come prima, peggio di prima, in forme più complesse da gestire rispetto al lockdown quando il Covid non era ancora diventato endemico.
Non si vedono tracce di una discussione organica sul che fare non solo nell’immediato, ma per il futuro prossimo venturo, né dentro i partiti né dentro il governo e nemmeno dentro il Pnrr. Il piano di ripresa e resilienza, anzi, sulla Sanità è insoddisfacente, sembra concepito prima e a prescindere dalla pandemia, scarso di risorse e di idee. La transizione ecologica e quella digitale sono i due pilastri che assorbono la maggior parte dei finanziamenti, la salute è la missione numero sei, quasi un’appendice. Alle “reti di prossimità” vengono destinati 7,5 miliardi di euro, alla ricerca un miliardo appena, per gli ospedali il grosso è concentrato sulla digitalizzazione e un po’ sull’ammodernamento strutturale.
Quanto al piano sanitario nazionale di “piano” ha solo l’etichetta con una divaricazione tra il nome e le cose che vale anche per il “sistema sanitario” il quale nei fatti è solo una distribuzione di soldi contrattati con le regioni. Insomma, abbiamo uno stato pagatore non programmatore, tanto meno imprenditore. Possiamo dire che la pandemia ha rilanciato l’importanza della sanità pubblica, anche se occorre un bagno d’umiltà perché si è manifestata in forme diverse una fragilità che ha consentito al virus di spadroneggiare più del prevedibile. I vaccini ci sono, ma non bastano, la loro efficacia è tanto maggiore quanto migliore è un sistema ben strutturato. Nessuno possiede magiche ricette, eppure Soriano e i suoi fratelli hanno ancor oggi qualcosa da insegnare.
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