Ci risiamo: consideriamo Spotify un editore?
Che succede se un podcast lascia ampio spazio a disinformazione e interventi discutibili? Il negazionismo di Joe Rogan e le fake news dell’audio
Nel 2020 Spotify aveva già mosso i suoi primi passi nel mondo del podcasting. L’anno precedente aveva comprato Gimlet, una rinomata società di produzione, e Anchor, un’app con cui produrre e distribuire podcast dal proprio smartphone. Ma erano mosse troppo timide per un gigante deciso a spostare il proprio business model dal dominio della musica a quello dell’audio. Così, nel luglio 2020, l’azienda svedese firmò un contratto da 100 milioni di dollari con Joe Rogan, comico e podcaster statunitense, per portare il suo podcast “The Joe Rogan Experience” in esclusiva su Spotify (Rogan può continuare a pubblicare clip video sul suo seguitissimo canale YouTube).
Fu così che Spotify ottenne la sua prima hit nel settore. Da allora ci siamo abituati a vedere anche in Italia prodotti di questo tipo realizzati in esclusiva dalla piattaforma. Ma che succede quando uno di questi prodotti, facciamo proprio il prodotto di punta, lascia ampio spazio a disinformazione e interventi discutibili?
Da anni Rogan ha costruito un impero fondato sulle canne fumate in studio e gli ospiti d’ogni tipo, che vanno dal comico di punta ad Alex Jones, fondatore di InfoWars e già noto per aver diffuso la teoria cospiratoria per cui la sparatoria nella scuola elementare Sandy Hook del 2012 era una messinscena. Jones è tornato da Rogan nel 2020, a pochi mesi dall’accordo con Spotify, vomitando le prevedibili teorie su Covid e mascherine, senza che l’azienda prendesse le distanze.
Nelle ultime settimane il copione si è ripetuto quando Rogan ha ospitato Robert Malone, medico statunitense da tempo bandito da Twitter che ha fatto – tra le altre cose – un bizzarro parallelo tra l’ascesa dei nazisti al potere e quello che sta accadendo negli Stati Uniti a causa del Covid. Pochi giorni dopo la pubblicazione della puntata, YouTube ha rimosso la clip incriminata (che nel frattempo era diventata abbondantemente virale); Spotify, invece, niente. Almeno finora. Il silenzio dell’azienda ha spinto 270 personalità del mondo della medicina a firmare una lettera aperta denunciando “la questione sociologica dalle proporzioni devastanti” di cui Spotify sarebbe “responsabile” non prendendo le distanze dalla sua star.
A chi ha seguito la discussione esplosa negli ultimi anni attorno al ruolo delle piattaforme social e la moderazione dei contenuti, la vicenda Rogan sembrerà un déjà vu. Il dilemma, del resto, non è cambiato da quando Facebook veniva accusata di ospitare e facilitare la diffusione di contenuti falsi o tendenziosi: è semplicemente dilagato, finendo per coinvolgere anche l’audio. Al centro del problema c’è la differenza impalpabile tra piattaforma ed editore: una piattaforma non produce contenuti di per sé ed è quindi non è responsabile di quello che gli altri vi pubblicano; per un editore, invece, le cose sono diverse. Ma Spotify, per Rogan, che cosa sarebbe, se non una nuova miscela di queste due figure, una piattaforma che ha rapporti diretti con il creator di cui è – se ha ancora senso usare questa parola – editrice?
Con gli anni, per esempio, YouTube ha sviluppato un meccanismo di segnalazione e moderazione dei contenuti (meccanismo molto lento, specie per quanto riguarda la disinformazione sul Covid), e anche Facebook ha fatto qualche timido – minuscolo – passo in avanti. Spotify, invece, nata per permetterci di ascoltare un catalogo sterminato di musica, sta seguendo il copione di Facebook nel 2016: non siamo mica degli editori, cosa dovremmo fare?
Rogan, intanto, sembra aver affinato l’arte della provocazione a tutti i costi al fine di aumentare gli ascolti. Una tecnica che funziona, nonostante tutto. Certo, come ha dimostrato The Verge in un recente articolo, l’impatto del suo podcast nella conversazione globale si è attenuato, ma era forse inevitabile visto che in molti, specie negli Stati Uniti, non hanno Spotify. Poco importa, perché proprio a questo serve la “spalla” di YouTube, che permette di raggiungere tutti anche grazie al giusto mix di Elon Musk, comici, polemiche e disinformazione sul Covid. Tanto nessuno gli dice niente: è il bello di non avere un non-editore.
Una recente indagine dell’associazione Media Matters ha studiato il comportamento di Rogan nel suo podcast trovando la frase che riassume perfettamente questa vicenda. Parlando con un ospite di come nel suo show sia possibile dire cose contro le persone transessuali, Rogan ha detto: “Puoi dire tutto quello che vuoi. Siamo su Spotify”.
tra debito e crescita