addio posto fisso
Come la Great Resignation può migliorare il lavoro italiano
Dall’America all’Italia. Perché i dati sulle dimissioni sono un termometro di vivacità del mercato del lavoro
Al di là dell’Atlantico la chiamano Great Resignation. E’ l’ondata di dimissioni che va avanti da mesi e continua a far registrare record su record: secondo i dati del Dipartimento del lavoro, a novembre 2021, negli Stati Uniti, 4,53 milioni di lavoratori si sono licenziati.
Il Washington Post attribuisce la definizione al Prof. Anthony Klotz, docente alla Mays Business School del Texas. I giornali statunitensi riportano storie e testimonianze di lockdown rivelatori e dipendenti travolti dal desiderio di cambiare vita per dare finalmente sfogo alle proprie passioni o ormai convinti che il lavoro non sia tutto.
Si parla di Yolo Economy: “You only live once”. Si vive una volta sola. La pandemia, tra tragedie e dolori, ci ha rivelato una nuova Epifania: prediligiamo il senso di quello che facciamo, desideriamo una qualità della vita al di sopra di quella che un lavoro poco gratificante può offrirci. Soprattutto se siamo giovani tra i 18 e i 25 anni. Uno studio McKinsey rivela che il 40 per cento dei lavoratori ha intenzione di cambiare professione nei prossimi mesi. I numeri salgono per la Gen Z e sono stranamente alti anche per i Millennials, la generazione delle due crisi, che nel post 2008 non trovava la porta d’ingresso nel mondo del lavoro o doveva accettare condizioni ai limiti dell’ammissibilità e col Covid-19 si ritrova spesso a dover rivedere ogni prospettiva.
Eppure anche oltre oceano c’è chi prova a spegnare facili entusiasmi. A partire dallo stesso Prof. Klotz, per il quale non è da escludere il concretizzarsi di dimissioni arretrate. O da Ryan Roslansky, chief executive di LinkedIn, che ha parlato piuttosto di “Great Reshuffle”: a fine settembre, la percentuale di chi ha cambiato lavoro era in crescita del 54 per cento rispetto al 2020, con chi si sposta dai settori in crisi per la pandemia in cerca di condizioni di lavoro migliori e retribuzioni più elevate. Del resto, ad ottobre 2021, negli Usa, erano 11 milioni le offerte di lavoro aperte, 4 delle quali rimaste senza copertura.
E in Italia? Il primo a osservare il fenomeno è stato Francesco Armillei, assistente di ricerca presso la London School of Economics e membro del think-tank Tortuga, autore di un approfondimento su Lavoce.info: tra aprile e giugno 2021 ci sono state 484 mila dimissioni su un totale di 2,5 milioni di cessazioni. Si parla di un +37 per cento sul primo trimestre del 2021, +85 per cento sul 2020 e +10 per cento sul 2019.
Un fenomeno successivamente confermato dai dati del Ministero del Lavoro, che consente un’analisi per il periodo che va dal 1 aprile al 10 novembre: le dimissioni volontarie sono pari a 1.195.875 , con un aumento del 23,2 per cento rispetto al medesimo periodo del 2019. La tendenza, quindi, viene confermata. Gli osservatori invitano alla cautela: nel fenomeno possiamo vederci dimissioni già programmate e rimandate nella fase di stallo imposta dal lockdown, dimissioni concordate o addirittura incentivate col datore di lavoro, impossibilitato al licenziamento.
Certo, se si trattasse di dimissioni per agevolare un cambio di stile di vita significherebbe un’inclinazione di quella tradizione tutta italiana improntata alla predilezione per il posto fisso e duraturo. Ma soprattutto, se fossimo in presenza di un fenomeno di riallocazione della forza lavoro, sarà interessante monitorarne i risvolti in termini di eventuale aumento della produttività e dei salari, fattori da sempre incoraggianti e rivelatori di un mercato del lavoro sano. “Chi si sposta da un lavoro ad un altro volontariamente lo fa perché ciò gli consente di migliorare le sue condizioni di lavoro. Quelli che stiamo vivendo però non sono tempi normali e le job-to-job post Covid-19 potrebbero essere spinte anche da altri e nuovi fattori”, suggerisce Armillei. E aggiunge: “Credo che dovremmo essere molto cauti nell’applicare al caso italiano le analisi fatte nel contesto statunitense e nel trarre conclusioni definitive.
Personalmente non mi convince la storia della Yolo Economy e anche la questione ‘mi dimetto e cambio vita’ (per dirla in breve) penso che sia legata a una componente minoritaria della popolazione. Ampie fasce di lavoratori in questo momento si trovano in realtà con il problema opposto: aver perso il proprio lavoro e non averlo ancora recuperato. Per quanto riguarda quei lavoratori che in effetti si stanno dimettendo, la spiegazione potrebbe essere semplicemente nel fatto che la ripresa economica porta sempre con sé un aumento delle dimissioni”.
Come sembrerebbero confermare anche il report del ministero del Lavoro sul mercato del lavoro: dati e analisi, del novembre 2021 che, analizzando le statistiche delle Comunicazioni Obbligatorie, suggeriscono che “in un contesto di forte incertezza i lavoratori, più spesso che in passato, hanno verosimilmente rassegnato le dimissioni solo a fronte della prospettiva di un nuovo impiego”, e lo studio Job-to-job flows and wage dynamics in France and Italy, condotto da Clémence Berson, Marta De Philippis e Eliana Viviano sui mercati del lavoro italiano e francese, con il quale le autrici dimostrano che la probabilità di cambiare volontariamente impiego è maggiore laddove sono più favorevoli le condizioni economiche: in altre parole, quando la domanda di lavoro aumenta.
“Quello che dovremo capire è se l'aumento di questi mesi è stata solo una fiammella temporanea o se invece il maggior dinamismo è destinato a durare. Se il Covid prima e il Pnrr poi permetteranno di far fare un salto al mercato del lavoro italiano, sarebbe un guadagno importante per la nostra economia. I movimenti da un lavoro all'altro sono essenziali per produttività e salari. Consentono ai lavoratori di trovare migliori opportunità di lavoro e alle imprese di trovare i lavoratori migliori per i propri bisogni. C'è da augurarsi quindi che non si tratti solo di un aumento temporaneo, ma al momento dobbiamo aspettare”, aggiunge Andrea Garnero, economista Ocse.
“Dai dati emergono la varietà e la complessità dei mercati del lavoro contemporanei in cui la mobilità è di certo maggiore del passato, e non ce ne accorgiamo oggi. Pensiamo ad esempio al fatto che oltre la metà dei contratti a tempo indeterminato non esiste più dopo due anni. Questo ci chiede di implementare un sistema di politiche del lavoro che si traduca sempre di più in un diritto alle transizioni occupazionali così che tutti siano messi nelle condizioni di provare a cambiare il loro percorso se vogliono”, chiarisce Michele Tiraboschi, professore di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico di Adapt.
Insomma, il tempo e l’osservazione dei dati ci diranno in che fase stiamo vivendo. La Great Resignation italiana potrebbe rappresentare il prologo di una tendenza o semplicemente una momentanea accelerazione dovuta ad altro. La speranza è che, sostenuta da un adeguato e illuminato sistema di politiche attive del lavoro e della formazione, che tenga in equilibrio i desideri dei lavoratori e le esigenze evolutive delle imprese, possa rappresentare quella sfida dal basso ad un eterno status quo difficile da sovvertire nel nostro mercato del lavoro. In favore di una flessibilità sana, di un diritto alle transizioni occupazionali: alla transizione tutelata ma attiva.