Adeguare la formazione dei prezzi energetici. Uno studio della Cna
La lettura che il balzo dei costi energetici sia determinato dalla transizione green è smentita dai fatti, più precisamente dalle rilevazioni dell’Acer (l’Agenzia europea che coordina le autorità di regolazione)
Il caro-energia si è trasformato in emergenza economica e politica che richiede interventi su più livelli che devono contenere lo stesso comun denominatore e la medesima matrice, altrimenti il treno dell’efficientamento energetico e dello sviluppo sostenibile rischia di deragliare.
Alcune indicazioni preziose per misurare l’enorme rincaro delle bollette e orientare una strategia efficace arrivano da una indagine realizzata dalla Cna presso circa 2.500 imprese. L’impennata dei costi energetici avrà impatti significativi sul 95 per cento del campione, con intensità differenziata ma sufficiente ad alimentare due spettri: il ritorno delle tensioni inflazionistiche e il rallentamento della ripresa economica, già certificato dai principali previsori internazionali.
Quasi l’80 per cento delle imprese prevede una compressione dei margini, il 10,6 per cento dovrà ridurre la produzione e il 6,8 per cento teme di fermare l’attività a causa di costi insostenibili con punte del 24 per cento in un settore strategico come il turismo. In cifre assolute, 200 mila imprese sperimenteranno una variante del lockdown e oltre 300 mila taglieranno i livelli produttivi alimentando un pericoloso circolo vizioso che parte dal calo della marginalità, passa per l’indebolimento della fiducia, il rinvio degli investimenti programmati e termina con l’abbassamento del potenziale di crescita.
Per contenere gli effetti del balzo dei costi energetici il governo è intervenuto già dalla scorsa estate, stanziando risorse per un ammontare straordinario di oltre 10 miliardi (compresi i recenti interventi attesi con il “Sostegni-ter”). Sterilizzare parzialmente i rincari delle bollette è utile nella fase emergenziale ma deve essere una sorta di ponte verso l’individuazione rapida di soluzioni strutturali e coerenti con gli obiettivi di politica energetica che l’Italia e l’Europa hanno fissato ma che troppo spesso ignorano nel disegnare indirizzi e strategie. Inoltre i sussidi presentano il limite economico di funzionare come agente dopante senza modificare la struttura della domanda e dell’offerta.
Una evidenza è la scelta di qualche anno fa di puntare su forme di sussidio per i cosiddetti energivori nel tentativo di fermare i trasferimenti di importanti attività piuttosto che definire programmi di incentivazione per l’efficienza energetica. Una scelta che ha determinato l’acuirsi di sperequazioni e iniquità. Già prima dell’emergenza bollette, si è resa evidente l’esigenza di riequilibrare il costo dell’energia che grava soprattutto su micro e piccole imprese che sopportano il 49 per cento del gettito complessivo degli oneri generali di sistema, drenando quasi 5 miliardi all’anno di risorse che potrebbero essere destinate a investimenti produttivi. Il risultato della distorsione è che una piccola impresa paga l’energia quattro volte di più rispetto a una grande impresa. Non solo, viene picconato il principio della progressività applicata alla transizione energetica del “chi più inquina più paga”.
Dalla indagine della Cna emerge un’altra indicazione sulla quale la politica è chiamata a misurarsi e riguarda le opzioni strategiche per rafforzare il sistema energetico, evidenziando che gli orientamenti del sistema delle imprese sono a basso contenuto ideologico. Oltre il 91 per cento degli intervistati indica la priorità di potenziare il sistema delle rinnovabili e quasi l’80 per cento sollecita una effettiva concorrenza sul mercato dell’energia. D’altronde, volendo guardare oltre la fase congiunturale, la possibilità di sfruttare forme di autoproduzione e di beneficiare dei vantaggi di prezzo che un mercato concorrenziale può dare, sono due ingredienti imprescindibili per un sistema energetico moderno e in linea con il percorso di transizione ecologica; si tratta al contrario di due ambiti in cui l’Italia non sta facendo abbastanza, riducendo al minimo le risorse a sostegno degli investimenti in fonti rinnovabili e prorogando di anno in anno il completamento dei processi di liberalizzazione.
Tali orientamenti dovrebbero far riflettere su alcune analisi probabilmente un poco precipitose e superficiali che possono condurre a confondere le cause con gli effetti. La lettura che il balzo dei costi energetici sia determinato dalla transizione green è smentita dai fatti, più precisamente dalle rilevazioni dell’Acer (l’Agenzia europea che coordina le autorità di regolazione). Nei paesi come l’Italia, nei quali l’incidenza del gas copre oltre un terzo dell’offerta, il prezzo medio dell’energia elettrica sui mercati all’ingrosso è circa il doppio rispetto a quelli dove il gas è marginale come la Scandinavia e il 30 per cento in più rispetto ai mercati di paesi del centro Europa, dove il gas mediamente rappresenta il 15 per cento della produzione elettrica. Le differenze sensibili riflettono la crescente dilatazione fra prezzo dell’energia elettrica e costi di generazione. Fenomeno che non dipende dalle quotazioni del gas (nel precedente picco del 2014 del gas si è registrata la marginalità più bassa del decennio) ma dai meccanismi per la formazione dei prezzi che sono entrati in vigore un quarto di secolo fa nei paesi Ue con la liberalizzazione e che si fondano sulla regola del System marginal price.
Un sistema che ha prodotto benefici superiori ai costi ma che va profondamente ripensato per adeguarlo alla nuova mappa della produzione energetica ed eliminare la disfunzione di un mercato che premia i costi marginali elevati (quelli delle rinnovabili sono praticamente zero ma con alti costi d’investimento). Tassare i presunti extraprofitti delle fonti rinnovabili in via straordinaria segnala che il problema è avvertito (non solo in Italia, anche in Francia, Spagna e Gran Bretagna) ma occorre scrivere nuove regole per un mercato efficiente.
Barbara Gatto
dipartimento politiche ambientali Cna
Claudio Di Donato