modello italiano
L'opa di Kkr su Tim smussata dal governo mostra i disastri della Consob
La “manifestazione d’interesse non vincolante” presentata dal fondo americano rischia di perdersi tra giochi politici e visioni differente tra ministri. Le manovre di Pietro Labriola per ostacolarela trattativa, il ruolo della Cassa depositi e prestiti e i limiti del capitalismo nostrano
Che fine ha fatto l’opa di Kkr su Tim? È stata travolta da un insolito destino come la politica italiana? Formalmente sta ancora in piedi o meglio bisogna dire su un piede, perché non è mai diventata (non ancora) una offerta pubblica d’acquisto vera e propria, resta piuttosto una “manifestazione d’interesse non vincolante”. Intanto, parecchie cose sono accadute nell’ex monopolista pubblico dei telefoni, la governance s’è mossa, gli azionisti si sono messi al coperto. Vincent Bolloré che controlla Vivendi, il gruppo francese primo azionista con il 23,75 per cento, è in molte altre faccende affaccendato (tra queste l’uscita dall’Africa vendendo il suo colosso della logistica alla Msc di Gianluigi Aponte) e in Italia ha seguito la tattica sperimentata da Enrico Letta nella battaglia per il Quirinale, lavorando per estromettere Luigi Gubitosi e per sostenere la soluzione interna: Pietro Labriola che, alla guida di Tim Brasil, ha fatto abbastanza profitti da tenere a galla l’intero gruppo.
Una volta preso il comando, Labriola ha messo in campo la sua proposta: scindere la rete collocandola in una società separata, ma sempre sotto il tetto della casa madre. Qui dovrebbe confluire anche FiberCop che Tim controlla insieme a Fastweb e al fondo Kkr. L’intento è rendere più difficile, fino a stopparla, un’opa del fondo americano. Dalla sua c’è l’opinione della Barclays: la banca britannica preferisce la separazione domestica rispetto all’ipotesi più radicale fatta intuire (perché un progetto non è stato ancora presentato) dagli americani. Il 3 marzo l’amministratore delegato dovrebbe illustrare il suo piano alternativo. “Non è chiaro se alla fine il cda prenderà in considerazione l’offerta potenziale e se la caldeggerà”, scrive il rapporto della Barclays che prevede un esito negativo dell’opa di Kkr, ma considera che del valore potrebbe essere estratto dal consolidamento in Brasile e da un accordo separato con Open Fiber. La Cassa depositi e prestiti, azionista numero due con il 9,81 per cento del capitale, non si è messa di traverso nella scelta di Labriola, ma adesso sta valutando se scindere la rete all’interno di Tim significa favorire o affossare del tutto l’altro progetto, quello che le sta più a cuore, cioè la nascita di un nuovo soggetto imprenditoriale che metta insieme l’infrastruttura Tim e quella di Open Fiber posseduta da Cdp con il fondo australiano Macquarie.
Sulla carta tutto è pronto, la Cassa avrebbe un ruolo guida con il 30 per cento del capitale, poi Tim ed eventualmente Kkr, Macquarie e altri fondi d’investimento. È l’idea della rete unica che nel governo piace al ministro dello sviluppo Giancarlo Giorgetti e molto meno al ministro della transizione digitale Vittorio Colao. Manovre, strategie che forse non andranno in porto, ma allontanano la Tim da una vera operazione di mercato. Sono tutte scorciatoie per raggiungere la porta di servizio in piena continuità con il modello italiano, vero archetipo del capitalismo di relazione o clientelare, crony come lo chiamano gli americani, dove prevale l’usato sicuro rispetto al nuovo da sempre equiparato a un’avventura o meglio a un salto nel buio? Se è così, dobbiamo aspettarci che anche i campioni del modello a stelle strisce ripieghino le loro bandiere e s’acconcino a un qualche accordo, oppure decideranno di uscire del tutto da una compagnia inossidabile alle “tentazioni mercatiste”? Anche Kkr ha i suoi errori da farsi perdonare. Perché non lanciare subito una vera opa? E perché chiedere l’accesso riservato ed esclusivo a fatti, cifre e documenti, quella che si chiama due diligence per la quale non basta una manifestazione d’interesse?
Evidentemente gli americani non si fidano delle informazioni che la Tim ha dato regolarmente al mercato, come prevede la legge, e magari ci sono scheletri chiusi nell’armadio. Un tale comportamento ha suscitato dubbi e sospetti, favorendo l’arrocco degli azionisti, a cominciare naturalmente da Vivendi. Non è stato preso bene nemmeno il prezzo offerto: 0,505 euro ad azione molto meno di quello al quale Vivendi ha comperato che s’avvicina a un euro al pezzo. Si è parlato di un aumento, magari fino a 0,80, ma anche questo sembra la logica del suk e non del mercato globale nel terzo millennio. Tutto ciò aiuta la società? Quando il 21 novembre scorso era emerso che la Kkr era interessate a prendere il 51%, il titolo era volato da 0,35 a 0,45 euro. Quando Labriola ha annunciato lo scorporo home made, la quotazione è scesa a 0,40. Di fronte a una incertezza sulla prospettiva industriale e sull’assetto proprietario la borsa continuerà a viaggiare sull’ottovolante. E Tim resterà a bagnomaria.