Pregi e difetti della proposta Draghi-Macron sulle nuove regole fiscali Ue
Il progetto di Giavazzi ha due idee: un'Agenzia europea del debito e una riforma del Patto di Stabilità per favorire gli investimenti. La prima è difficile da far accettare ai paesi del nord, meglio concentrarsi su come ottenere la seconda
Nel dibattito in corso sulla riforma della governance economica europea, una proposta che ha assunto un particolare rilievo, anche perché contenuta in calce ad un articolo di Mario Draghi ed Emmanuel Macron pubblicato a dicembre sul Financial Times (e quindi implicitamente sostenuta dai due governi), è stata avanzata da Francesco Giavazzi con diversi co-autori, uno dei quali è anche il principale consulente economico del presidente francese. La proposta si compone in realtà di due parti, connesse tra di loro. La prima avanza una soluzione al problema dell’eccesso di debito pubblico creato dai paesi europei per rispondere alla pandemia (il debito-Covid, tra il 15 e il 20% del PIL europeo); la seconda si concentra invece più propriamente sul tema della riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC).
Le difficoltà di un'Agenzia europea del debito
In linea con altre proposte avanzate di recente (per esempio, da Stefano Micossi, con però qualche differenza significativa), l’idea fondamentale della prima parte è quella di far acquistare il debito-Covid, ora detenuto in gran parte dalla Bce e dalle banche centrali nazionali, ad una nuova Agenzia europea del debito che si finanzierebbe emettendo propri titoli. In pratica, si tratterebbe all’inizio semplicemente di uno scambio a prezzi di mercato nel bilancio della Bce tra titoli nazionali e titoli dell’Agenzia; successivamente, la Bce potrebbe però cedere questi nuovi titoli europei al mercato. La proposta avrebbe sicuramente numerosi vantaggi; creerebbe un titolo di debito europeo (permanente, perché il debito acquistato verrebbe sempre rinnovato e ampliato in modo da mantenere la stessa proporzione sul pil europeo) che potrebbe essere utilizzato dalla Bce per le proprie operazioni di mercato, senza dover ricorrere soltanto ai titoli nazionali; renderebbe possibile in futuro anche per i paesi ad alto debito finanziare una parte della propria spesa a tassi bassi, tramite l’Agenzia; infine, costituirebbe una nuova potenziale fonte di finanziamento per il bilancio europeo.
Tuttavia, al di là di alcune difficoltà tecniche e giuridiche, il problema fondamentale è che per poter funzionare il meccanismo richiede la disponibilità dei paesi finanziariamente più solidi a condividere il rischio con quelli più deboli; i titoli pubblici dei diversi paesi, ora per il 90% a carico delle rispettive banche centrali nazionali, verrebbero a seguito della proposta garantiti di fatto dal complesso dei paesi dell’Euro. E’ questa condivisione che consentirebbe all’Agenzia di finanziarsi a tassi bassi. Se i paesi sono disponibili, benissimo; ma il problema sul fronte politico è che con l’eccezione del debito europeo contratto per finanziare il Next Generation Eu (non a caso però un meccanismo transitorio, creato solo in funzione anti-pandemica) i paesi finanziariamente più solidi si sono finora sempre dimostrati contrarissimi a ipotesi di questo tipo. In più, come argomentato in un articolo recente con Angelo Baglioni, non è in realtà necessario che la Bce si liberi dei titoli pubblici nazionali sul proprio bilancio per poter svolgere una politica anti-inflazionistica. Questo costituisce un vantaggio ulteriore per i paesi ad alto debito, visto che finché i titoli pubblici rimangono sul bilancio delle banche centrali anche gli interessi pagati su questi vengono rimborsati ai paesi. Insomma, spendere pesantemente del capitale politico nella contrattazione con gli altri paesi sul tema della condivisione di una parte dei debiti nazionali, quando questo non è strettamente necessario, può non essere una buona idea.
Il "debito buono" nelle nuove regole fiscali
Viceversa, cruciale è la seconda parte, quella sulla riforma del Patto di Stabilità e crescita. Quasi certamente, vista la ripresa economica in corso, verrà presto revocata la clausola di salvaguardia (general escape rule) che da marzo 2020 ha consentito ai paesi europei di spendere senza essere soggetti alle regole fiscali europee. Diventa dunque importante chiedersi quale Patto sarà in vigore a partire dal prossimo anno, se quello che abbiamo già conosciuto in passato o uno riformato. Il problema per ogni proposta di riforma è definire un percorso credibile di riduzione del debito per chi ne ha troppo, consentendo però nel frattempo al paese di crescere investendo in capitale fisico e umano (“la spesa per il futuro”, per usare l’espressione degli autori), alla luce anche dei sicuri futuri pesanti esborsi di risorse richiesti della transizione energetica. Per l’Italia, un percorso graduale ma credibile di riduzione del debito sul pil sarebbe particolarmente vantaggioso perché tranquillizzerebbe i mercati, mantenendo basso lo spread e il costo del debito e rendendo dunque ancora più facile raggiungere l’obiettivo.
Qui la proposta di Giavazzi e co-autori costruisce su molti elementi condivisibili, in parte già avanzati nel dibattito. In sintesi, si propone per ciascun paese (ad alto debito) la stipula di accordi decennali con le autorità europee di riduzione del debito, superando l’attuale irrealistica e mai applicata “regola del debito” (che costringerebbe ciascun paese a ridurre di 1/20 all’anno la differenza tra il debito attuale e il 60%). Questi accordi si tradurrebbero in piani triennali, la cui validità sul piano economico verrebbe accertata dalla Commissione e dagli organismi fiscali indipendenti nazionali (come l’Ufficio parlamentare di Bilancio in Italia), superando l’attuale programmazione di fatto annuale del bilancio; il rispetto degli accordi verrebbe verificata tramite tetti annuali al tasso di crescita della spesa (al netto delle componenti più cicliche e della variazione discrezionale delle entrate), così sostituendo una variabile osservabile e facilmente comprensibile a cose misteriose e difficilmente computabili come l’avvicinamento all’obiettivo di medio periodo per il bilancio strutturale. La crescita verrebbe sostenuta tramite una golden rule, cioè la possibilità di sottrarre dalla spesa annuale soggetta a controllo, in parte o del tutto, la “spesa per il futuro”. Si fa anche riferimento al modello del Pnrr per fugare i dubbi sulle possibilità di manipolazione della “spesa per il futuro”; il coinvolgimento ex ante della Commissione nella verifica dei piani triennali ridurrebbe i rischi in questa direzione. L’articolo propone infine anche un algoritmo per distinguere tra il debito “buono” (quello creato per finanziare la “spesa per il futuro”) e il debito “cattivo” (il resto del debito), consentendo un rientro più lento per il primo. Ma forse questa complicazione non è necessaria; se il debito è davvero “buono” dovrebbe generare maggiore crescita in futuro, consentendo di raggiungere più facilmente l’obiettivo di riduzione del rapporto debito su pil. Casomai, una velocità differenziata si potrebbe immaginare per il debito creato per affrontare emergenze davvero esogene, come appunto il Covid.
L'enforcement
Questa seconda parte della proposta ha sicuramente maggiori possibilità di passare il confronto europeo, perché soddisfa due esigenze universalmente sentite; la semplificazione del quadro delle regole e la necessità di incrementare la spesa per investimenti, un elemento ormai condiviso da tutti i paesi, “frugali” inclusi, soprattutto alla luce della transizione energetica. Il problema fondamentale resta però quello dell’enforcement; come garantire che un paese effettivamente segua il piano previsto e che succede se non lo fa. Il tema delle sanzioni su paesi sovrani è molto delicato; non a caso la Commissione ha sempre evitato di introdurle, anche quando aveva la possibilità di farlo sul piano legale. Questa è anche la ragione perché il riferimento al Pnrr è in qualche misura ingannevole; con il Pnrr il problema almeno in linea di principio non si pone, perché ci sono i soldi europei e se un paese non spende nei modi e nei tempi previsti, non ottiene le risorse previste. In assenza di questo meccanismo, il problema dell’enforcement resta cruciale. Per fare progressi con i partner europei, sarà necessario affrontare questo tema seriamente.
Massimo Bordignon è un economista dell'Universtià Cattolica di Milano