Genova, flash mob dei promotori del Si al referendum del 17 aprile 2016 contro le trivellazioni - Ansa/Luca Zennaro 

L'ambientalismo nella bolletta

Claudio Cerasa

I tabù sul gas, i danni dei no triv, l’ideologia anti nucleare. Perché gli anti populisti possono tornare a dettare l’agenda sull’ambiente solo ripartendo da concorrenza e competizione. È ora di estrarre di più

Tra i numerosi vizi ideologici che impediscono all’Italia di avere un mercato energetico improntato sui criteri dell’efficienza – capace cioè di reagire con compostezza di fronte agli aumenti dei prezzi generati dagli improvvisi eccessi di domanda – ve ne sono alcuni che nascono da un problema trasversale che attraversa l’identità della stragrande maggioranza dei partiti italiani. Quel problema, che accomuna populisti e anti populisti, ha a che fare con una storica diffidenza di fondo che la classe dirigente italiana nutre di fronte a una parola solitamente tabù: il mercato. E se si ha la pazienza di unire insieme alcuni puntini si capirà facilmente perché l’aumento vertiginoso dei prezzi che gran parte degli italiani si ritrova oggi sulle proprie bollette non lo si spiega solo con quello che succede fuori dal nostro paese (dalla crisi delle materie prime alle tensioni tra Russia e Ucraina). Ma lo si spiega anche con quello che l’Italia ha scelto di non fare in questi anni su un fronte delicato come quello della concorrenza.

 

La prima questione importante riguarda l’incapacità di riconoscere i danni creati da un ambientalismo tossico e ideologico. Un ambientalismo che a colpi di slogan (no triv, no gas, no atomo, no pale) ha indebolito progressivamente e dolosamente il tessuto energetico del nostro paese privando l’Italia di alcune opzioni utili per essere più indipendente dal mercato esterno.

 

È grazie ai movimenti no triv che l’Italia – pur avendo mantenuto negli ultimi vent’anni un consumo costante di metri cubi di gas (circa 78 miliardi di metri cubi all’anno) – è arrivata a produrre 4 miliardi di metri cubi di gas nel 2020 dopo averne prodotti 16,8 miliardi nel 2000. Avete letto bene. Da 16,8 miliardi a 4 miliardi. In sostanza, il consumo di gas è rimasto lo stesso (evviva), ma il gas prodotto internamente dall’Italia è diminuito in modo notevole (la moratoria delle trivelle scattata a febbraio 2019 ha congelato circa 150 autorizzazioni, 73 permessi di ricerca già in vigore e altri 79 per i quali era pendente la richiesta, e di fatto oggi in Italia ci sono circa 90 miliardi di metri cubi di metano in fondo al mare italiano che non vengono utilizzati, che potrebbero arrivare a una quota intorno ai 120 miliardi se si considerano le risorse potenziali di gas non ancora accertate). E il gas che l’Italia consuma ogni anno piuttosto che comprarlo interamente a prezzi competitivi ora è costretta a comprarlo all’estero a prezzi non sempre competitivi (Russia, Qatar, Algeria,  Norvegia). Dunque: che aspetta il governo ad autorizzare un’estrazione maggiore di gas per rafforzare la sua offerta? Si può fare.

  

L’altra forma di populismo  che ha impedito all’Italia di farsi trovare preparata di fronte alla crisi energetica ha a che fare con una volontà autolesionistica del nostro paese: ripudiare la concorrenza a tal punto da non capire che solo all’interno di un ecosistema in cui vive il massimo della competizione tra le fonti di energia è possibile avere un sistema più innovativo, più efficiente e più conveniente.

 

Un esempio di questa miopia politica e culturale è rappresentata dall’approccio scelto dall’Italia rispetto al tema dell’energia nucleare. Nel 1987, come sappiamo, un referendum ha stabilito il no dell’Italia all’utilizzo dell’energia nucleare a fissione. Quel no però non ha impedito in questi anni all’Italia di acquistare un terzo della sua energia elettrica dalla Francia (la cui produzione elettrica dipenda al 50 per cento dal nucleare: dunque l’Italia che dice no al nucleare acquista dalla Francia energia prodotta con il nucleare). E quel no, oggi, viene utilizzato in modo a dir poco strumentale  se si considera che la tecnologia bocciata nel 1987 era infinitamente differente rispetto a quella più evoluta di oggi, che presta molta maggiore attenzione alla sicurezza e alla gestione delle scorie, e che non a caso la Commissione europea ha da poco inserito tra gli investimenti sostenibili in linea con il Green deal europeo.

     
Poca competizione tra le fonti energetiche uguale dipendenza eccessiva da poche fonte energetiche. E dipendenza eccessiva da poche fonti energetiche uguale servizi per il cittadino meno convenienti rispetto a come potrebbero essere. Un esempio ulteriore da considerare per provare a inquadrare i danni prodotti da una preoccupante diffidenza nei confronti del mercato è quello che riguarda il continuo slittamento in avanti del cosiddetto mercato libero energetico, che sarebbe dovuto partire nel 2018 e che rinvio dopo rinvio salvo sorprese partirà solo il primo gennaio del 2023.

 

Si dirà: e che problema c’è? Il problema lo si può capire facilmente se si ha la pazienza di confrontare chi in questi ultimi anni ha scelto di uscire dal mercato così detto tutelato (un regime tariffario base nel quale la tariffa per la componente energia  viene stabilita ogni tre mesi dall'autorità regolatrice del settore) per entrare nel mercato così detto libero (che esiste già, certo, ma esiste solo per chi ha scelto di aderirvi, mentre dal primo gennaio del 2023 tutti dovranno decidere, senza che gli sia assegnato automaticamente, che gestore vorranno avere per l’energia). Chi, lo scorso anno, ha sottoscritto un contratto all’interno del mercato libero si è ritrovato con un contratto a tariffa bloccata per diversi mesi (e dunque chi ha quel contratto oggi non sentirà molto il peso dell’aumento delle bollette). Chi invece si trova all’interno del mercato delle maggiori tutele (si fa per dire maggiori tutele) ha un contratto i cui costi riflettono duramente le tensioni sul mercato energetico (qui l’inflazione si sente). Gli anti populisti, come abbiamo raccontato ieri sul Foglio, hanno regalato ai populisti battaglie di buon senso sull’ambiente. Per riappropriarsi del buon senso un modo c’è. Puntare sull’unica chiave dove i populisti non metteranno mai becco. In tre parole: scommettere sul mercato.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.