Un traliccio davanti alle torri di raffreddamento della centrale a carbone di Jaenschwalde, in Germania (Foto di Sean Gallup/Getty Images) 

Le ideologie da eliminare per ragionare sull'ambiente senza tabù

Marco Bentivogli

Capire le complessità è la prima condizione per cambiare la realtà. È il momento di ricomporre le fratture sociali proprio sulle sfide ambientali

Quando i temi seri entrano nell’abbattitore dell’opinionismo si edificano polarizzazioni che allontanano il discorso pubblico da ogni barlume di buonsenso. L’ultimo, solo in ordine di tempo, è la transizione energetica e ambientale. Il buonsenso e l’esperienza ci suggeriscono che fissare i traguardi senza costruire percorsi realistici per arrivarci vanifica ogni possibilità di raggiungerli e ci regala una bomba sociale che divarica definitivamente le diseguaglianze. La premessa? Sono personalmente d’accordo su tutti gli obiettivi fissati per scongiurare il disastro climatico. Ma proprio perché sono d’accordo mi interessa capire come ci si arriva davvero. Questo per me significa essere riformisti: avere una visione sugli approdi ma governare le derive e, per questo, costruire il percorso migliore affinché divenga un cammino collettivo e non un ulteriore dimostrazione di perbenismo astratto dei ricchi

   
“Ascoltare il grido della terra quanto il grido dei poveri” (Laudato si’). Quando si passa ai criteri di valutazione degli Esg (Environmental, social and corporate governance) la “S” di social diventa sempre più simbolica e irrilevante. Come a dire che occuparsi delle persone sia un orpello che rallenta o allontana i traguardi. Falso, non solo è una condizione irrinunciabile per non lasciare sole le persone, ma proprio per raggiungere i traguardi. Capire le complessità è la prima condizione per cambiarla, la realtà, per costruire una strategia che consenta di dire alle persone: la sfida è dura e importante, l’affronteremo tutti insieme. È il momento di ricomporre le fratture sociali proprio sulle sfide ambientali

   
Troppi movimenti in Europa, tutti lontani dalla mia sensibilità politica, ci fanno capire l’urgenza di ricostruire la democrazia e i suoi attori. Hanno tutti un tratto comune, la reazione strumentalizzata dall’estrema destra, contro il velleitarismo e l’astrattismo del dibattito e delle politiche. “Voi pensate al futuro del mondo, noi ad arrivare alla fine dei mesi” dicevano i gilet gialli, slogan banali senza respiro, gridati dai settori paradossalmente più protetti, ma che ci restituiscono l’esigenza di fare i conti con i destini delle persone. Con altre forme e colori,  rivolte simili sono accadute in tutto il mondo occidentale. La questione si risolve in un quesito: è accettabile che la battaglia per la tutela del creato diventi la bandiera esclusiva delle (migliori) élite dei ricchi all’interno dei paesi ricchi? È pensabile che si confonda la mitica resilienza con il rattoppo che si risolve con il sussidiare le imprese e agevolare l’uscita “volontaria” dal lavoro? Anche perché questo ci chiederanno i metalmeccanici del settore automotive (e di altri settori) che hanno giustamente aperto la questione sociale e industriale. Purché non si risponda loro con “è un prezzo da pagare per salvare il pianeta” perché non è vero, ma è l’effetto collaterale dell’assenza di politiche degne di questo nome.

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