Così l'Inpgi mette le pensioni privilegiate dei giornalisti a carico dell'Inps
Secondo l'Inps la cassa dei giornalisti garantiva pensioni più alte e 6 anni di contributi gratis, con un tasso di sostituzione del 97%. Ora è fallita, ma i diritti sono "acquisiti": il conto lo pagheranno i contribuenti più poveri
Su questo giornale abbiamo criticato, in una non molto folta compagnia, per usare un eufemismo, il salvataggio dell’Inpgi, la cassa pensionistica dei giornalisti, da parte dell’Inps che si accollerà un disavanzo medio di 250 milioni di euro l’anno nel decennio, con un trend crescente che si avvicina ai 300 milioni annui nel 2030. Per poi proseguire negli anni successivi. Criticavamo il bail-out voluto dal governo essenzialmente per due ragioni: la prima è che lo stato garantirà tutti i “diritti acquisiti” dei giornalisti elargiti dall’Inpgi scaricandone il costo sugli altri contribuenti che, all’opposto dei giornalisti, hanno subito importanti riforme pensionistiche passando al contributivo 20 anni prima; la seconda ragione è che questo salvataggio è un pericoloso precedente, perché premiando una gestione irresponsabile spingerà le altre casse pensionistiche private all’azzardo morale.
Questo secondo punto è stato successivamente criticato dall’Ufficio parlamentare di Bilancio, secondo cui questa operazione “oltre a indurre a sottovalutare l’inefficacia delle sorveglianze, finisce per premiare ex-post il moral-hazard degli organismi di gestione e dei rappresentanti di categoria, configurandosi come pericoloso precedente all’interno della previdenza di base che contempla 23 casse privatizzate”. Rispetto al primo punto, invece, sebbene i media abbiano dedicato poco dell’argomento a dispetto di una generale spasmodica attenzione al tema delle pensioni (si pensi solo a quanto si è parlato dei “vitalizi” dei politici), buona parte di questo spazio è stato occupato dai vertici dell’Fnsi (il sindacato) e dell’Inpgi (che ha scritto anche al Foglio), per negare i privilegi parlando di “presunta generosità delle prestazioni”.
Anche su questo tema è il caso di fare chiarezza e un punto fermo lo mette l’Inps, che dovrà farsi carico della cassa dei giornalisti ormai fallita. In un’analisi che analizza i dati del casellario pensioni, il Centro studi e ricerche dell’Inps mostra chiaramente l’entità della “generosità” facendo un confronto tra le regole dell’Inpgi e quelle del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) e della gestione dei dipendenti pubblici (Inpdap). Il risultato è che l’Inpgi garantisce pensioni più elevate a parità di retribuzione e carriere contributive più brevi. E non di poco. Per l’Inpgi l’importo medio di una pensione è di circa 60 mila euro nel 2020, mentre per il fondo Fpld è di circa €15 mila euro e per Inpdap 25 mila euro. L’assegno è ovviamente il prodotto degli anni di contribuzione e del rendimento attribuito ai contributi. Per quanto riguarda il primo punto, la carriera contributiva, “nel 2020 la metà dei percettori di una pensione della gestione pubblica (Inpdap) aveva un’anzianità di 37 o più anni; il corrispondente valore per i giornalisti era di circa 30 anni”. Sette anni di differenza.
Per quanto riguarda la valorizzazione della carriera contributiva, l’analisi dell’Inps parla di “una valorizzazione del rendimento più generosa per Inpgi” per via “dell’applicazione del calcolo contributivo solo dal 2017”. Se le regole di calcolo della pensione fossero state le stesse dei lavoratori pubblici, per avere la stessa pensione garantita ai giornalisti dall’Inpgi (e d’ora in poi dall’Inps) sarebbero stati necessari “in media 6 anni di contribuzione in più di quella effettivamente realizzati”.
C’è un altro dato, molto significativo, non presente nell’analisi del Centro studi ma mostrato dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico durante una presentazione, che descrive sinteticamente questo squilibrio: il tasso di sostituzione, ovvero il rapporto tra l'ultimo stipendio e l’assegno pensionistico. Se per i contribuenti sotto la gestione Inps è mediamente del 70%, per i giornalisti sotto l’Inpgi è del 97%: in pratica la pensione è pari all’ultimo stipendio. Un sistema previdenziale del genere non poteva non fallire. Ma la cosa più assurda è che questa gestione irresponsabile non solo è stata tollerata dallo stato, ma viene addirittura premiata facendone pagare il costo a tutti gli altri contribuenti, che mediamente hanno redditi e pensioni di gran lunga inferiori.