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La buona trivella. Ecco il piano di Draghi e Cingolani per il metano

Stefano Cingolani

Sotto terra in Italia c’è metano per 200 miliardi di metri, ma non si aprono nuovi pozzi e gli investimenti delle compagnie sono fermiL’Italia brucia circa 70-75 miliardi di metri cubi di gas l’anno, esistono altre strade, la soluzione c'è, bisogna solo attuarla

L’ingegner Carlo Zanmatti aveva ricevuto un ordine preciso dalle autorità della Repubblica sociale italiana e dal quartier generale della Wehrmacht: chiudete tutto, baracca e burattini, liquidate l’Agip. Il direttore generale diventato commissario aveva cercato di prender tempo dicendo ai suoi uomini di continuare a trivellare il pozzo nei pressi di Caviago, a poca distanza da Lodi. Era convinto che sotto ci fosse una gran quantità di metano, glielo aveva confermato anche il geologo americano Elmer Thomas che aveva condotto accurate ricerche, nonostante la guerra, in un territorio occupato dai nemici. Mollare proprio adesso? Una follia. Ma se davvero fosse sgorgato il gas, non sarebbero subito calati i falchi predatori? Il dilemma gli toglieva il sonno. Finché nell’ottobre del 1944 quel che sapeva era diventato realtà. I tecnici e gli operai gridavano di gioia, l’ingegner Zanmatti era gonfio di orgoglio, ma doveva soffocarlo. Zitti tutti, nessuno apra bocca, tappiamo il buco e basta così. Nessuno seppe più nulla, incredibile a dirsi in una Italia non usa a mantenere segreti. Agli anglo-americani decisi, anche loro, a sciogliere l’Agip e al Clnai (Comitato di Liberazione nazionale alta Italia) che aveva ben altra idea, l’ingegnere spiegò che il silenzio aveva salvato quella risorsa nazionale. Fu comunque epurato e l’azienda, nata nel 1926 con la collaborazione della Fiat e della British Petroleum, restò in bilico a lungo, finché non arrivò il partigiano bianco Enrico Mattei e tutto cambiò.

 

L’Italia trivellata alla ricerca di idrocarburi? Non è una novità. Avveniva fin dal 1860, anzi era stata la terza nazione al mondo dopo gli Stati Uniti e la Romania. Nemmeno la dipendenza da Mosca è nata oggi. Fu Benito Mussolini a stringere un patto petrolifero con l’Unione sovietica nel 1923: divenne uno dei primi governanti europei a riconoscere il nuovo stato comunista e arrivò la benzina Victoria. Quanto alle perfide multinazionali, il non ancora Duce fece intervenire l’americana Sinclair che pagò lucrose tangenti. L’indipendenza energetica la chiedevano Luigi Sturzo e Giacomo Matteotti. Anzi, secondo alcune interpretazioni i fascisti assassini del deputato socialista avevano le mani sporche non solo di sangue, ma di oro nero. Allora le trivelle erano buone, un patrimonio di tutti, una speranza per la modernizzazione di un paese largamente agricolo.

 

Il regime fascista, mentre continuava le ricerche sul sottosuolo patrio, metteva la sordina alle sirene sovraniste e stringeva accordi in mezzo mondo per attirare capitali, tecnologie, scienziati, imprese. Di petrolio nazionale ce n’era poco e non ne fu trovato molto dall’Agip. Più abbondante il metano, ma allora sembrava meno importante e più difficile da utilizzare. Solo dopo la guerra l’Agip, diventata poi Eni, fece sgorgare il greggio a Cortemaggiore in provincia di Piacenza e il metano a Caviaga. Nacque il cane a sei zampe, la benzina Supercortemaggiore finì su Carosello, si coltivavano grandi speranze, eppure l’Italia diventerà un grande paese trasformatore e importatore, ma solo un piccolo produttore. Lo hanno impedito la natura e l’economia: allora gli idrocarburi americani, arabi, persiani costavano meno ed era più rapido farli arrivare; finché la rivolta degli sceicchi non interruppe per sempre il miracolo italico. La storia non insegna nulla e la campagna No Triv lo ha dimostrato.

 

Facciamo un balzo al 1987, quando l’Italia abbandonò l’atomo (era stata la prima al mondo a utilizzarlo per fini pacifici): lo volle il popolo, lo favorì un intreccio di interessi economici, lo spinse un conflitto tutto interno alle partecipazioni statali tra l’Enel (di area democristiana) nuclearista e l’Eni (di area socialista) che puntava sugli idrocarburi. Chiuse le centrali in un batter d’occhio, cominciò l’epoca del metano che “ti dà una mano”, come recita il noto slogan pubblicitario. E il gas italiano, per quanto minoritario rispetto a quello importato dall’Algeria, dal Golfo Persico, dal mare del Nord, dalla Siberia e dal Caucaso, crebbe fino a 21 miliardi di metri cubi nel 1994, cifra non sufficiente, è ovvio, eppur significativa.

   

Da allora è tutto un crollo: 17 miliardi nel 2000, tre miliardi oggi. Che cosa è successo? Finite le crisi energetiche degli anni Settanta è scoppiato quello che gli americani hanno chiamato oil glut: troppi idrocarburi rispetto alla domanda e a un prezzo molto basso, soprattutto considerando la svalutazione monetaria. Poi sono arrivate le due grandi onde politiche: quella ecologista e quella populista che si sono intrecciate nello scorso decennio. L’Italia è giunta al culmine di questo ingorgo sei anni fa con esiti persino paradossali. Perché la volontà del popolo è stata fraintesa dall’avvocato del popolo e la sovranità espressa direttamente dai cittadini ignorata dai paladini della democrazia diretta.

 

Il 6 luglio 2015 due organizzazioni ambientaliste (il Coordinamento nazionale No Triv e l’associazione A Sud Ecologia e Cooperazione onlus), sottopongono alle regioni una proposta di referendum popolare abrogativo sulle trivellazioni in mare, da indire senza ricorrere alla raccolta di firme, ma in base al potere d’iniziativa che la Costituzione attribuisce loro. La richiesta viene formalmente approvata – con distinte delibere – dai consigli regionali di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto, otto dei quali accomunati da una maggioranza politica di centro-sinistra. La regione Abruzzo si tira indietro nel gennaio successivo. La proposta prevede sei diversi quesiti con l’obiettivo di ostacolare e bloccare la ricerca e l’estrazione di gas.

 

Il governo Renzi, con la legge finanziaria per il 2016, introduce alcune modifiche che fanno decadere cinque quesiti, resta quello decisivo: “Abrogazione della possibilità di proroga delle estrazioni fino all’esaurimento dei giacimenti, solo per le concessioni marittime già rilasciate che distano meno di 12 miglia nautiche internazionali dalla costa”. Entro le 12 miglia ci sono nove concessioni (con 39 piattaforme) la cui autorizzazione è scaduta e ne è stata chiesta la proroga. Quegli impianti hanno prodotto nel 2015 circa 622 milioni di metri cubi di gas (pari al 9 per cento della produzione nazionale e al 1,1 per cento dei consumi complessivi del 2014). Il referendum viene fissato per il 17 aprile 2016 e parte una campagna senza esclusione di colpi.

 

La guerra delle parole raggiunge il massimo dei minimi con l’elegante slogan “Trivella tua sorella”, mentre si diffondono i timori per la sorte delle cozze pelose che in Puglia dovrebbero offrire un’alternativa alla maledetta Ilva di Taranto, secondo esponenti di punta del movimento Cinque stelle al quale dà ampio spazio Michele Emiliano, presidente della regione Puglia, che fa parte del Pd, ma da tempo predica l’alleanza e pratica il dialogo con i grillini. Sul fronte opposto si agitano le acque dell’Adriatico centro-settentrionale: a Ravenna s’indice un gara per i mitili più buoni e più sani, e pare che siano quelli cresciuti attorno ai pilastri delle piattaforme che estraggono il gas. Chi accusa la Croazia di succhiare il prezioso metano mentre gli italiani litigano. Chi paventa terremoti in val Padana perché i giacimenti aprono voragini nel sottosuolo. Una corsa all’iperbole, a spararla sempre più grossa, che certo non aiuta a fare chiarezza. I sondaggi d’opinione rivelano che il popolo resta freddo e confuso. Il movimento referendario è senza dubbio più bravo a inquinare i pozzi, però il messaggio non arriva ai destinatari. La tv boicotta, lamentano i No Triv, ma non è così: per alcuni mesi sono protagonisti su tutti gli schermi, interviste, talk show, vivono un momento di gloria, in genere le ospitate televisive prevedono due di loro contro un “trivellatore” e il più delle volte il conduttore liscia il pelo ai promotori del referendum.

   

Finisce che alle urne va solo il 31,19 per cento degli elettori, la stragrande maggioranza è per bloccare tutto, ma l’astensione fa mancare il quorum e segna la sconfitta dell’asse eco-populista. Il popolo ha parlato tacendo, però i suoi interpreti, avvocati, commissari (come li chiamò Rousseau, Jean Jacques sia chiaro, ben prima di Lenin) non ci stanno. Le elezioni del 2018 sono la cuspide nazional-populista che porta al governo Cinque stelle e Lega. Uno dei primi atti è fermare le trivelle. La moratoria del 2019 doveva durare 18 mesi, nel 2020 viene estesa a 24 e 30 mesi, ma l’obiettivo, scrivono gli onorevoli Giovanni Vianello e Luciano Cillis del M5s, “è vietare definitivamente nuove trivelle su tutto il territorio nazionale, mare incluso”.

 

In quei tre anni trascorsi dalla sconfitta dei No Triv alla moratoria, sono partiti soltanto i giacimenti Argo e Cassiopea, nel Canale di Sicilia dove l’Eni, ottenuto il via libera, avvia lavori per 700 milioni di euro. L’avvio della produzione è previsto per la prima metà del 2024, per un decennio darà un miliardo di metri cubi di gas in più l’anno. Ma sono ancora fermi, sepolti, intoccabili, i 30 miliardi di metri cubi di metano sotto al fondale dell’alto Adriatico, appena un terzo di quelli ancora nascosti nel sottosuolo italiano secondo le stime del Pitesai, varato dal ministero della Transizione ecologica guidato da Roberto Cingolani. L’acronimo designa il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, introdotto nel 2018 dal Governo Conte 1, quello gialloverde, ufficialmente come piano regolatore delle trivelle, ma diventato uno strumento per congelare l’esistente e impedire lo sfruttamento dei giacimenti nazionali.

   

Le stime delle riserve italiane di gas pubblicate, cioè 92 miliardi di metri cubi, comprendono i giacimenti accertati e non possono immaginare quelli ancora da trovare. Secondo Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, “sotto terra in Italia c’è metano per 200 miliardi di metri cubi che al prezzo attuale valgono 160 miliardi di euro”. Ma nuovi pozzi non si aprono e gli investimenti delle compagnie sono fermi. Il metano nazionale ha un costo di estrazione attorno ai 5 centesimi al metro cubo. Invece il prezzo di mercato del gas che l’Italia importa è arrivato fino a 80 centesimi. Lo psicodramma delle bollette passerà con l’arrivo della primavera, ma il dilemma energetico resta.

  

L’Italia brucia circa 70-75 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Appena tre miliardi sono estratti dai giacimenti in pianura padana e da quelli, più grandi, nell’Adriatico, in Basilicata, in  Sicilia. La produzione ha continuato a ridursi: si pensi che nel 2020, l’anno nero della pandemia, era a 4,4 miliardi di metri cubi. Il governo ora spera di raggiungere i 5 miliardi, più che un balzo in avanti un ritorno indietro. Le importazioni vengono soprattutto da Russia, Algeria, via nave fino al rigassificatore di Rovigo e dal nuovo metanodotto Trans-Adriatico che per fortuna funziona dopo anni di proteste No Tap. Secondo uno studio presentato dall’Assorisorse, che riunisce l’industria mineraria, sui soli giacimenti di gas dell’Emilia-Romagna, sia in terraferma sia in mare, bisognerebbe investire 322 milioni di euro per raddoppiare da 800 milioni a 1,6 miliardi di metri cubi l’anno. Una cifra più che abbordabile senza scassare gli equilibri del bilancio pubblico. Se tanto mi da tanto, servirebbe un paio di miliardi per estrarre circa 10 miliardi di metri cubi l’anno per un decennio, risultati che comunque restano lontani dal recente passato.

 

Recuperare il gas perduto è estremamente difficile; in ogni caso riaprire i pozzi darebbe un contributo all’occupazione, alle imprese, alle casse dello stato e alla lotta contro le emissioni di anidride carbonica e ancor più contro le particelle solide rilasciate dal carbone. Non si tratta di perforare ancora, ma di aggiornare gli impianti ancora funzionanti e riattivare le riserve ferme da anni. Alcuni giacimenti sono ormai secchi, altri sono pieni di gas interrato da norme, ricorsi, divieti e moratorie. Anche se molti esperti ritengono che sia nato vecchio, il nuovo piano toglie il tappo, almeno sulla carta. Cambieranno davvero le cose? Come e fino a che punto?

 

Il Pitesai abbraccia il 42 per cento del territorio e stabilisce la chiusura alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di tutte le aree marine e terrestri non comprese nell’ambito del piano. Non potranno più essere interessate la Valle D’Aosta, il Trentino-Alto Adige, la Liguria, l’Umbria, parte della Toscana e della Sardegna, e a mare il 5 per cento della intera superficie marina sottoposta a giurisdizione italiana. Fondamentale resta l’offshore del mar Adriatico, pur con alcune limitazioni. L’obiettivo è razionalizzare e concentrare l’estrazione su poche concessioni attive. Il via libera riguarda soltanto le attività le cui domande sono state presentate dopo il primo gennaio del 2010. La soluzione non convince il popolo dei mille No, già sceso in piazza in 44 città al grido “No gas”. “Gli investimenti previsti, cioè almeno 30 miliardi di euro, debbono essere convogliati verso l’unica vera soluzione: le fonti rinnovabili”, proclamano gli organizzatori della protesta. Non è diviso solo il popolo, lo sono le élite, lo sono gli addetti ai lavori e i grandi gruppi industriali. Francesco Starace, amministratore delegato dell’Enel, ha suonato la campana a morto per il gas che resta il core business dell’Eni. C’è davvero un’alternativa in tempi brevi?

 

Ancor oggi acqua, vento e sole assicurano solo un quinto della domanda energetica totale; la quota sale al 38 per cento per quella elettrica, con il contributo maggiore (circa il 40 per cento) dell’idroelettrico, seguito da eolico, fotovoltaico, bioenergia e geotermia. Si può fare di più, dovremo consumare meno e meglio, tuttavia finché nuove tecnologie non consentiranno una maggiore stabilità delle fonti rinnovabili, una volta tolto il carbone (che sarà già difficile escludere persino in Italia, non parliamo della Germania o della Polonia) e in attesa dell’energia stellare con la fusione nucleare, bisognerà usare il gas, sviluppando tutte i mezzi per ridurre il suo già basso effetto inquinante. In mancanza di un bene assoluto si sceglie il male minore, così suggerisce la ragione, ma ci sono ragioni che la ragione non conosce, lo diceva Blaise Pascal e anche la pandemia lo ha dimostrato.

 

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