Cos'è e come funziona il potere di Gazprom
Geopolitica, affari, spregiudicatezza, influenza sui governi e debiti mostruosi che ora espongono il gigante del gas russo alle sanzioni dell’occidente. Quanto resisterà Putin alla sua economia al collasso? Indagine
Un missile di cristallo proteso verso il cielo, un grattacielo a punta, il secondo in Europa, con i suoi 462 metri e 87 piani, dopo la torre Ostankino di Mosca, svetta a San Pietroburgo sulle rive della Neva. Un simbolo più chiaro di così non si poteva scegliere per rappresentare Gazprom, il suo potere, il suo messaggio. La Russia è un petrostato al pari dell’Arabia Saudita, come sostiene Marshall Goldman, un’autorità in materia? Attenti alle semplificazioni, certo è che il petrolio e il gas sono gli strumenti scelti da Vladìmir Putin prima per risollevare dalla polvere la potenza del paese poi per restaurare l’impero. Per lui la politica energetica è da sempre la chiave di volta, ad essa ha dedicato la sua tesi di dottorato all’università nel 1997 quando era già da tempo ai vertici dell’Fsb, l’erede del Kgb. In molti hanno messo mano alla costruzione del Lakhta Centr (Lakhta è un quartiere periferico) cominciata nel 2012: gli inglesi per il primo disegno, gli americani della Aecom per la gestione del progetto, i tedeschi della Josef Gartner per i vetri, i turchi della Rönesans Holding per la costruzione. Nell’agosto dello scorso anno Gazprom ha trasferito il quartier generale dal nero palazzo moscovita nel nuovo monumento alla sua potenza.
Da lì si dirama una trama vastissima. Il gas forse ancor più del petrolio, serve a pagare le pensioni, i salari della vasta burocrazia, i profitti dei nuovi boiardi, squadre di calcio come lo Zenit di San Pietroburgo, il club favorito di Putin, ma alimenta anche il Chelsea di Roman Abramovich, il tedesco Shalke 04, la Stella Rossa, la Uefa e la Champions League, la Formula 1, la Ntv in tempo unica televisione indipendente, i giornali Izvestia e Komsomol Pravda due testate storiche dell’era sovietica quando il primo era l’organo del governo e il secondo della gioventù comunista, politici, scienziati, economisti e molti, molti altri. Tutta questa piramide del potere oggi vacilla. Il valore di Gazprom nella borsa di Mosca s’è dimezzato, inoltre il rischio di una interruzione del flusso verso l’Europa porterebbe il gruppo al fallimento. Si favoleggia sull’alternativa cinese, ma se tutti i progetti avviati in Siberia di qui al prossimo decennio fossero già al massimo delle loro potenzialità, l’export di gas sarebbe comunque inferiore a quello collocato già oggi in Europa.
Al culmine della sua potenza Gazprom fatturava 160 miliardi di dollari, era la prima azienda del Paese e la 47esima al mondo, contribuiva per il 3 per cento al pil russo e dava lavoro direttamente a 400 mila persone. Possiede 176.800 km di gasdotti, le sue riserve di gas corrispondono al 70 per cento di quelle di tutta la Russia e al 16 per cento del totale mondiale. Per capire come si è arrivati a questo punto dobbiamo rileggere la sua storia. Il nome è banale in piena tradizione sovietica: Gazovaja Promyšlennost’, Industria del gas. Era insomma un ministero trasformato da Michail Gorbačëv nel 1989 poco prima che crollasse il muro di Berlino, in un ente responsabile per la produzione e distribuzione del gas. A presiederlo l’ultimo capo sovietico aveva messo Viktor Cernomyrdin che nel 1992 sarebbe diventato primo ministro nominato da Boris Eltsin. L’Unione sovietica si era già disgregata, ma lo scambio tra gas e politica è continuato. Nel 2000 Putin colloca alla presidenza di Gazprom Dmitrij Medvedev il fedelissimo dal volto di fanciullo che sarà primo ministro e con il quale poi scambierà il trono del Cremlino. Il ’92 è anche l’anno della privatizzazione avvenuta con la vendita dei voucher ai cittadini russi. Dal comunismo al capitalismo popolare? Calma, le cose sono ben più complicate. Le aste davvero poco competitive che avrebbero dovuto distribuire la proprietà delle aziende di stato, fanno emergere i futuri oligarchi molti dei quali amici e clienti degli uomini al potere, altri loro diretta emanazione.
Prendiamo Gazprom. La quota dello stato scende poco al di sotto del 40 per cento. Il 15 per cento va ai dipendenti, il resto in voucher con vincoli agli stranieri (non più del 9 per cento). Nel 2005, durante il secondo mandato di Putin, Rosneftgaz, compagnia energetica di proprietà dello Stato, acquista una quota del 10,7 per cento da varie sussidiarie del gruppo. E’ la nuova fase fase nella quale si distingue l’ex Kgb con la tecnica chiamata dell’aspirapolvere perché raccoglie le azioni disperse e le piazza in mano agli amici fedeli. Chi non lo è, viene messo al bando o imprigionato come Michail Borisovič Chodorkovskij già consulente finanziario di Boris Eltsin che, con un’asta pilotata aveva acquisito il gruppo petrolifero Jukos poi espropriato e assorbito da Rosneft il gigante, gemello di Gazprom, che gestisce l’oro nero.
La Russia era fallita nel 1999, un trauma che aveva travolto Eltsin e portato al potere Putin da allora ossessionato dal crac finanziario e dalla sindrome dell’accerchiamento. La spia diventata presidente punta decisamente su gas e petrolio per risollevare le sorti del paese, mettendo in campo una strategia di concentrazione del potere economico della quale fa parte l’aspirapolvere del Kgb con i suoi agenti trasformati in uomini d’affari. Tra loro prevale la cricca di Leningrado da sempre vicina a Putin. Alla guida della Rosneft va Igor' Sečin che secondo Stratfor è stato "il protagonista del traffico d'armi dall'Unione Sovietica all'America Latina e al Medio Oriente”. La Gazprom tocca ad Aleksej Miller catapultato al vertice nel 2001 non appena Putin diventa presidente. Nato nel 1962 anche lui a Leningrado da famiglia di origine tedesca, laureato in economia, nel 1991 entra nell’ufficio del sindaco Anatolij Aleksandrovič Sobčak vero mentore di Putin. Lì comincia il loro sodalizio. Nel 2000 è viceministro dell’energia, si occupa del Baltico e dei tubi che attraversano il “Mediterraneo del Nord”, un anno dopo il grande salto, con Medvedev al suo fianco per alcuni anni. Oggi il presidente è Viktor Zubkov, primo ministro di Putin tra il 2007 e il 2008 e Miller continua a guidare il colosso del metano. Nel 2010 è stato persino nominato grand’ufficiale della Repubblica italiana.
Se la fonte del potere è il gas, gli strumenti sono i contratti a lungo termine siglati con i paesi europei a cominciare da Italia e Germania, che impongono una presunta reciprocità grazie alla quale Gazprom ha accesso diretto ai consumatori. Sono esempi di abilità mercantile e ricatto economico, ma anche della “imprudenza” (usiamo il cauto aggettivo di Mario Draghi) europea. Imprudenti in Germania sono stati i socialdemocratici tedeschi guidati dal cancelliere Gerhard Schröder poi diventato consulente di Gazprom e ora presidente di Rosneft, ma anche i democristiani di Angela Merkel; in Italia sono stati imprudenti gli azzurri e i verdi guidati da Silvio Berlusconi, ma anche i governi dopo di lui. Nel 2006 il piano energetico prevedeva dieci rigasificatori però il governo strinse un accordo trentennale con Gazprom e ne sono rimasti tre. I russi imposero un principio: “no downstream no upstream”, cioè senza l’accesso al mercato interno nessuna fornitura. Il prezzo era fisso, pochi anni dopo crollò sui mercati internazionali e nel 2013 il governo Letta dovette ritrattare le condizioni. Lo scambio si è rivelato comunque ineguale per le aziende italiane (comprese Eni ed Enel) e per il paese, se è vero che noi esportiamo in Russia sette miliardi di euro l’anno e ne paghiamo dodici, soprattutto per il gas. Ma nemmeno i grandi gruppi tedeschi, soprattutto Basf e Eon, hanno contrattato su una base di vera reciprocità, né la britannica Shell che pensava di metter mano al gigantesco progetto siberiano Sakhalin II. Secondo l’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia, organo dell’Unione europea, paesi extra-Ue come Macedonia del Nord, Bosnia ed Erzegovina e Moldavia usano al 100 per cento gas russo. Finlandia e Lettonia, stati membri, sono intorno al 90 per cento. La Germania è al 49 per cento, l’Italia al 46. L’Ispi, l’Istituto studi per la politica internazionale, ha elaborato un indice di dipendenza che tiene conto anche di tutte le altre fonti dal quale risulta che l’Ungheria ha un tasso di vulnerabilità del 31 per cento, poi vengono la Slovacchia (29) e la Lettonia (28). L’Italia, con il 19 per cento, è settima in assoluto seguita dalla Germania (12 per cento).
La potenza di Gazprom è costruita anche sui debiti e questo lo rende vulnerabile alle sanzioni finanziarie. Nel 2019, prima della pandemia, ha più che raddoppiato il suo indebitamento salito a 11,1 miliardi di dollari, il 13 per cento con scadenza in meno di un anno, il 18 per cento entro due anni anni, il 44 per cento del debito in 5 anni e il 25 per cento del suo debito a più di cinque anni. In parte servono a sfruttare Chayandinskoye, uno dei più grandi giacimenti, un pozzo lungo quattro chilometri. Il campo è unico in termini di riserve, che ammontano a 1.200 miliardi cubi di gas e 61,6 milioni di tonnellate di petrolio e condensa. Da quando nel 2014 in seguito all’annessione della Crimea scattano le sanzioni, Miller si rende conto che deve diversificare gli sbocchi, l’Europa resta sempre stradominante, ma quanto ancora potrà essere alla sua mercé? Le speranze principali sono rivolte a Oriente.
Anche la Russia produce e vende gas liquefatto, le navi non compensano i tubi, né possono competere con americani, arabi, giapponesi ma in ogni caso vanno potenziare. Il nuovo grande acquirente può essere la Cina. Un primo gasdotto Power of Siberia è stato inaugurato in pompa magna nel 2019 da Putin e Xi Jinping. Lungo 4.000 chilometri poco meno di quello che passa per l’Ucraina, porta il gas russo dagli enormi giacimenti siberiani di Kovyktinskoye e Chayandinskoye sino a Blagoveshchensk, la città russa sul fiume Amur che segna il confine. Nel 2021 ha esportato 16,5 miliardi di metri cubi di gas. Entro il 2025, l'export dovrebbe salire a 38 miliardi di metri cubi l’anno. C’è poi un progetto speculare, il Power of Siberia 2 che rifornirà la Cina con altri 10 miliardi di metri cubi dal 2026. Adesso Gazprom ha firmato un contratto per progettare il gasdotto Soyuz Vostok che attraversa la Mongolia e potrebbe trasportare fino a 50 miliardi di metri cubi di gas. Riassumendo: finora sono stati esportati 16,5 miliardi, mettendo insieme presente e futuro Gazprom potrebbe mandare in Cina 130 miliardi di metri cubi. Lo scorso anno ha venduto in Europa 177 miliardi di metri cubi poco meno dell’obiettivo stabilito in 183 miliardi. In questo decennio almeno, non ci sono alternative. La Cina ha grande fame di energia, ma finora ha diversificato fonti e fornitori. Il mercato con tutti i suoi alti e bassi si è rivelato più benigno dei contratti trentennali stile post sovietico. E in questo stile s’annida l’intrinseca debolezza della “Industria del gas”.