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Quanto pagherà l'economia italiana per le sanzioni alla Russia?

Mariarosaria Marchesano

I fertilizzanti che scarseggiano mettono in difficoltà la produzione agricola, le tensioni sul gas si riflettono sul rincaro delle bollette, l'export è a rischio e c'è l'incognita inflazione. L'economia europea deve correre ai ripari 

“In conseguenza dei prezzi record del gas naturale in Europa, stiamo temporaneamente riducendo la produzione degli stabilimenti di Ferrara (Italia) e Le Havre (Francia)”. Il gruppo norvegese Yara, colosso europeo del settore dei fertilizzanti, ha deciso di fermare due impianti con una capacità annuale combinata di 1 milione di tonnellate di ammoniaca e di 900 chili di urea (un altro composto chimico utilizzato come concime). In questo modo la capacità produttiva di Yara si ridurrà al 45 per cento. L’annuncio del 9 marzo arriva dopo che lo scorso autunno la società di Oslo aveva già deciso di stoppare a singhiozzi la produzione nell’impianto petrolchimico di Ferrara per l’elevatissimo costo del metano. Dopo un breve periodo di ripresa, il nuovo stop apre uno squarcio sull’impatto che guerra e caro energia stanno avendo su un settore di cui si parla poco ma che è fondamentale per le produzioni agricole.

 

L’Italia dipende dalla Russia non solo per il gas ma anche per il 25 per cento del fabbisogno di fertilizzanti, indispensabili per aumentare la futura produzione di cereali le cui scorte sono ormai ai minimi storici. “La notizia della Yara, che è la nostra prima associata, dimostra che la situazione sta diventando davvero difficile – dice al Foglio Giovanni Toffoli, presidente di Federchimica-Assofertilizzanti, che raggruppa 58 aziende del settore  – Ma la guerra russo-ucraina c’entra solo nella misura in cui ha esasperato rincari dell’energia già in atto. La ripresa economica post Covid ha prodotto un forte aumento della domanda globale di ammoniaca, fosforo e concimi azotati, così alcuni grandi paesi produttori hanno scelto di privilegiare il mercato interno, compresa la Russia che dallo scorso dicembre ha bloccato le esportazioni verso l’Italia. Così il nostro paese si ritrova con una produzione nazionale insufficiente che per di più corre il rischio di fermarsi perché gli operatori del settore non ce la fanno a sostenere i prezzi del gas arrivati alle stelle”. Il gruppo Yara ha detto che continuerà a monitorare la situazione e, per quanto possibile, continuerà a rifornire i clienti e a garantire la continuità nelle catene di approvvigionamento alimentare, ma riducendo la produzione quando necessario a causa delle difficili condizioni del mercato.

 

“La verità – riflette Toffoli - è che l’Italia dovrebbe diventare più indipendente nella produzione di fertilizzanti, come in altri settori strategici, perché i flussi di queste materie prime che arrivano da nord Africa, Egitto e Algeria non sono sufficienti per controbilanciare le mancate importazioni e questo finirà per riflettersi a cascata su più tipi di produzioni alimentari”. Bollette alle stelle e materie prime introvabili stanno colpendo anche il settore della ceramica, particolarmente energivoro. Due tra le aziende più note del distretto di Sassuolo, Panaria e Fincibec, hanno spento “temporaneamente” i forni da qualche giorno, avvertendo che se la situazione non cambia ci saranno altre imprese che seguiranno la stessa strada. Eppure, l’industria della ceramica si era ripresa bene dal periodo pandemico e nel 2021 ha messo a segno una crescita del fatturato di circa il 12 per cento rispetto al 2019 superando 6,2 miliardi di cui 5 miliardi derivano dalle esportazioni.

 

Ma il rialzo del costo del metano, diventato drammatico ad ottobre 2021, si è ulteriormente esasperato con speculazioni spunte dal conflitto bellico. L’invasione del Donbas ha determinato poi un ulteriore problema provenendo da quelle zone parte delle argille usate per la produzione. Allo stato attuale, le scorte di materie prime disponibili a Ravenna - porto di approdo delle navi caricate a Mariupol – sono ancora in grado di far fronte alla richiesta anche se risulterà quasi impossibile nel medio termine riprendere i rifornimenti di materie prime lungo questa tratta marittima. Seppure con giacimenti importanti, l’Ucraina non è l’unico paese di approvvigionamento e si sono già intensificati i rapporti con altri paesi fornitori, ma per queste cose ci vuole tempo. Il caso dei fertilizzanti e delle ceramiche dimostra che tipo di intreccio infernale si sia creato tra guerra-sanzioni economiche e scarsità-rincaro dei prezzi delle materie prime che sta spingendo indietro le lancette dell’economia mondiale.

 

Il mondo stava uscendo dal Covid con grandi speranze nella ripresa, ma S&P ha già abbassato le stime di crescita a livello globale dal 4,2 per cento al 3,4 per cento nel 2022 e il Fmi si è detto pronto a rivedere le sue previsioni. L’Eurozona rischia di essere la regione più colpita dal conflitto in Ucraina con una riduzione del pil previsto per quest’anno di almeno lo 0,5 punti percentuali (dal 4,2 per cento al 3,7 per cento), secondo le ultime stime della Bce. In questo contesto l’Italia sembra destinata a pagare un prezzo molto salato, dopo che è stato il paese ad aver raggiunto il maggior incremento congiunturale in Europa dopo la crisi Covid. “Bisogna distinguere – avverte l’economista Marco Fortis – gli effetti della guerra sull’interscambio tra Italia e Russia, che mi paiono piuttosto limitati, da quelli prodotti dall’inflazione che è spinta dai rincari dell’energia, delle materie prime e dei prodotti chimici, tra cui i fertilizzanti. E’ l’inflazione la vera minaccia per la crescita economica del nostro paese, dato che due terzi del pil dal lato della domanda sono generati dai consumi”. Per Fortis gli effetti delle sanzioni e delle reciproche ritorsioni sugli scambi commerciali sono preoccupanti per prodotti italiani come farmaci, mobili, rubinetteria e valvolame, calzature, abbigliamento femminile, macchine per imballaggio, vini e spumanti, pompe, caffè torrefatto, borse e pelletteria, impianti di sollevamento e trasporto, preparazioni per capelli, divani.

 

Tuttavia - osserva - il made in Italy può risentire di meno dell’export di altri paesi dell’avvitamento delle sanzioni con la Russia e di una conseguente frenata degli scambi commerciali per la sua maggiore differenziazione in termini di prodotti: un aspetto strutturale del nostro interscambio”. L’esperienza di alcuni imprenditori sul campo sembrerebbe dare ragione a questa tesi. Fabio Ravanelli, titolare della Mirato, azienda piemontese con 220 milioni di fatturato che produce beni per l’igiene personali con marchi famosi come Breeze, Clinians, Malizia, racconta la sua preoccupazione per la filiale commerciale di Mosca dopo che Putin ha inserito l’Italia nella lista dei paesi ostili. “Al momento non ci sono particolari problemi perché le catene di distribuzione locali sono disponibili ad assorbire la produzione anche con lievitazioni di prezzi, ma quello che non sappiamo è se in quel paese possiamo ancora vendere prodotti italiani”.

 

La Russia pesa all’incirca il 5 per cento sul giro di affari della Mirato e questo, dice l’imprenditore, fa sì che l’impatto a livello di gruppo sia piuttosto marginale. “Quello che, invece, sta diventando sempre più complicato da gestire è la scarsità di materie prime come acciaio, alluminio, cartone, che a noi servono per confezionare i prodotti. Basti solo pensare alle bombolette spray. Gli analisti ci avevano assicurato che le strozzature negli approvvigionamenti si sarebbero risolte al massimo nel secondo semestre di quest’anno, ma temo che i rallentamenti possano protrarsi fino al 2023”. Ravanelli, è anche presidente delle Camere di Commercio dell’Alto Piemonte. A quanto ammonta l’export di quest’area verso la Russia? “Non più del 2 per cento”, risponde. La Cna della Lombardia, invece, è meno ottimista e afferma che sono a rischio 2 miliardi di interscambio con la Russia (su oltre 7 miliardi a livello nazionale) e che l’impatto sulle imprese della regione che operano in settori come moda e mobili rischiano di essere molto forti. Daniele Parolo, che della Cna è vice presidente nazionale, dice che la cosa più difficile per le imprese è affrontare l’effetto combinato di aumento del prezzo del gas, transizione energetica e guerra. Nonostante questo, anzi, proprio per questo, dice di essere arrivato alla conclusione che “bisognerebbe assecondare al più presto la richiesta dell’Ucraina sulla no fly zone” perché sarebbe “il modo più veloce per fermare la guerra che oltre a tante vittime civili rischia di danneggiare seriamente l’economia”.

 

Parolo è titolare di un’azienda del settore automotive, che sta vivendo con sofferenza il passaggio alla mobilità elettrica ma è anche presidente dell’Aurica, società nata in seno alla Cna Lombardia per distribuire gas ed elettricità a imprese e famiglie. “Qualcuno comincia a non pagare o chiede di rateizzare le bollette – racconta – ma il punto è che l’aumento del prezzo del gas di 10-15 volte rispetto allo scorso anno fa moltiplicare i costi delle fideiussioni che siamo obbligati a rilasciare ai nostri fornitori con un impatto anche a livello di bilancio. Questo fenomeno dei rincari è antecedente all’invasione dell’Ucraina ed è soprattutto di tipo speculativo. Per questo dico che la guerra non dovrebbe distoglierci da come affrontare il tema della dipendenza energetica”. E questa è diventata una priorità anche per il governo Draghi.

 

Lucio Poma, economista di Nomisma, spiega che se per assurdo la Russia chiudesse i rubinetti del gas, la Germania potrebbe far leva sul carbone e la Francia sul nucleare, ma l’Italia non avrebbe modo di sostituire il gas importato dalla Federazione, sebbene si stiano cercando altre strade. “Le imprese – avverte Poma - stanno pagando più cari anche gli ets, i certificati per l’efficienza energetica, il cui prezzo è lievitato da 20 euro del 2022 a 80-90 di oggi”. Secondo Poma, il vero incubo per un paese manifatturiero come l’Italia è certamente la scarsità delle materie prime poiché l’aumento del loro prezzo fa crescere i costi di produzione e può spingere l’inflazione oltremisura, posto che il livello attuale non desta, a suo avviso, particolari preoccupazioni considerato il ritmo di crescita che c’è stato finora. “C’è però un aspetto positivo in tutto questo gran pasticcio: è stata messa in luce l’insostenibilità della nostra dipendenza dall’estero per alcuni settori strategici. Tra questi c’è quello dei semiconduttori. La decisione assunta dalla Commissione europea con il ‘Chips act’ di raddoppiarne la produzione rappresenta un cambio di approccio. Stiamo capendo che mettere al riparo l’economia europea da choc esogeni è più importante che garantire a tutti i costi le condizioni per la concorrenza globale”. E la fine della globalizzazione? Può darsi, ma questa è un’altra storia.

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