Carburante, gas, energia. Gli speculatori ci sono, ma c'entrano poco con l'aumento dei prezzi
La domanda fondamentale è se vi sia una anomalia italiana. La risposta è no, gli incrementi sono inferiori a quelli medi dell’eurozona sia in valore assoluto, sia in percentuale
La procura di Roma ha aperto un fascicolo sugli aumenti dei prezzi dei carburanti, del gas e dell’energia elettrica. Al momento si tratta di un procedimento contro ignoti e senza ipotesi di reato. Qui proviamo a dare qualche suggerimento non richiesto sugli aspetti economici della questione, concentrandoci sui prodotti petroliferi, i cui rincari hanno spinto il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, a parlare addirittura di “colossale truffa”.
La domanda fondamentale che gli inquirenti dovranno porsi è se vi sia, nell’andamento dei prezzi, una anomalia italiana. La risposta va cercata anzitutto nei numeri. Nella settimana del 7 marzo – l’ultima per la quale sono disponibili dati confrontabili fra diversi paesi – i prezzi nel nostro paese, al netto delle tasse, erano inferiori alla media europea: mille litri di benzina costavano 872 euro, la stessa quantità di diesel 882 euro. La media dell’eurozona era, rispettivamente, di 969 e 1.025 euro, con picchi particolarmente elevati in Germania (1.082 e 1.237 euro). Se i valori assoluti non destano sospetti, forse è tra gli aumenti che troveremo la pistola fumante? Se confrontiamo i valori citati con quelli di inizio gennaio, a fronte di un’impennata del Brent da 79 a 123 dollari al barile (+55,6 per cento), troviamo un incremento della benzina di 189 euro per mille litri (+27,6 per cento) e del gasolio di 198 euro (+28,9 per cento). Questi incrementi sono inferiori a quelli medi dell’eurozona sia in valore assoluto (227 per la benzina e 273 per il gasolio) sia in percentuale (+30,5 per cento per la benzina e +36,4 per cento per il gasolio).
Dunque, se benzina e gasolio costano oggi in Italia meno che nel resto d’Europa, costavano meno all’inizio dell’anno, e hanno subito rincari inferiori, dove sta l’inghippo? Qui si possono seguire due strade. L’una è quella di guardare il prezzo alla pompa, quindi al lordo delle tasse. I prezzi dei carburanti in Italia sono grossomodo in linea con la media dell’eurozona. Dunque, se c’è un elemento singolare, è quello fiscale: sebbene i prezzi industriali siano sotto la media, accise e Iva ci fanno risalire la classifica.
Alternativamente, ci si può chiedere perché la materia prima, il petrolio, si colloca oggi su livelli record. E qui il fatto è che la guerra provoca incertezza e l’incertezza costa. Inoltre, molti operatori occidentali hanno smesso di acquistare dalla Russia nel timore di incappare in qualche guaio: ciò ha prodotto scarsità e una maggiore competizione per accaparrarsi gli altri greggi. Infine, la produzione continua a rimanere bassa. Ciò è dovuto solo in parte a ragioni economiche: negli Usa gli operatori si stanno ancora leccando le ferite del 2020, quando molti sono falliti a causa dei bassi prezzi (in alcuni momenti addirittura negativi!). Ma, soprattutto, l’Arabia Saudita – che potrebbe aprire i rubinetti – sta reggendo il gioco alla Russia, anche per reazione alle tante partite aperte con gli Usa, dai negoziati sul nucleare iraniano alla strisciante polemica con l’amministrazione Biden sull’omicidio del giornalista Kashoggi. Quindi, più che dei trader, qui la responsabilità è degli sceicchi; e, più che l’eccesso di carta, la faccenda sta nella scarsità di petrolio.
E gli speculatori? Pure loro hanno un ruolo in questa partita, ma ben diverso da quello che ci si potrebbe aspettare. Lo speculatore è uno che compra a poco (quando un bene è abbondante) con la speranza di rivendere a tanto (quando è scarso): in tal modo, riduce la scarsità nel momento del bisogno. Ma c’è di più: in questa fase di alta volatilità e alti prezzi, gli stessi trader devono far fronte a oneri finanziari enormi e imprevedibili. Tant’è che – riferisce il Financial Times – la European Federation of Energy Traders ha chiesto sostegno emergenziale, invocando l’intervento delle banche centrali. Il rischio di fallimenti a catena è concreto: proprio quelli che vengono additati come gli untori corrono oggi i rischi più grandi. E, come ha scritto Javier Blas di Bloomberg, forse non sono “too big to fail” ma restano “too big to be ignored”. Insomma, con buona pace di qualche strisciante pulsione populista, potrebbe essere nell’interesse collettivo di salvare gli speculatori dalla bancarotta, quali che siano le loro colpe passate.