Putin ha già perso la guerra economica

Luciano Capone

Crollo del pil (-10%), aumento dell'inflazione (+20%) e crescita stagnante per molti anni. L'invasione dell'Ucraina e le sanzioni occidentali fanno piombare la Russia nella crisi peggiore dalla dissoluzione dell'Unione sovietica, anche perché avrà effetti duraturi

La decisione di Vladimir Putin di invadere l’Ucraina costerà alla Russia una crisi economica profondissima, con conseguenze negative durature. Sarà la più grande recessione dal crollo dell’Unione sovietica. Secondo la Banca di Finlandia che ieri ha rilasciato le previsioni economiche sulla Russia per il 2022-2023, il pil russo quest’anno crollerà del 10 per cento, scendendo al livello del 2011 dove resterà per i prossimi anni. Un salto indietro di dieci anni, con un drastico peggioramento delle condizioni di vita dei russi.

 

Secondo il Bank of Finland Institute for Emerging Economies, l’istituto della Banca centrale finlandese che studia l’economia del vicino ingombrante, le sanzioni imposte dall’occidente hanno già notevolmente destabilizzato l’economia russa, portando la crescita in territorio negativo, facendo crollare il rublo e impennare l’inflazione. Già prima dell’invasione i prezzi erano in crescita al 9%, oltre il doppio del target fissato dalla governatrice della Banca di Russia Elvira Nabiullina al 4%, ma ora l’inflazione è destinata ad aumentare fino ad almeno il 20%, un livello record da oltre venti anni. Il mix di recessione e inflazione, entrambe a doppia cifra, produrrà una notevole riduzione dei consumi pubblici e privati (-14%), degli investimenti fissi (-20%) e delle importazioni (-50%). Uno scenario completamente diverso rispetto alle previsioni di crescita del 2-3% indicate a febbraio dalla Nabiullina, dopo una ripresa post Covid del 4,7% nel 2021.

 

Non solo la crisi sarà intensa, ma la ripresa sarà molto più lenta rispetto al passato. Insomma, sarà peggio del collasso del 1998 che portò la Russia al default. Allora, dopo la crisi finanziaria partita dall’Asia, il pil russo subì una contrazione del 5,3%.  Ma dopo la crisi del 1998, che arrivò dopo anni di tentativi parziali di riforme nel processo di transizione post sovietica guidato da Boris Eltsin, la ripresa fu rapidissima e l’economia russa, anche per l’aumento del prezzo del petrolio, entrò in un decennio di crescita a tassi del 5-10%. È questo il decennio in cui, grazie al boom delle materie prime, Vladimir Putin ha costruito il suo sistema di potere e consolidato il consenso attorno all’idea del riscatto dopo il buco nero degli anni Novanta.

 

Nel 2009, quando è arrivata la crisi finanziaria partita nel 2008 negli Stati Uniti, il mondo entrò nella più grande depressione dal dopoguerra che comportò un disinvestimento dai paesi in via di sviluppo, una contrazione della produzione e un crollo del prezzo del petrolio. Di conseguenza, la Russia subì un altro duro colpo con una contrazione del pil vicina all’8%. Ma anche in quel caso la recessione durò un solo anno, seguita da una ripresa che sembrava ripercorrere la dinamica degli anni Duemila con il ritorno del petrolio oltre i 100 dollari al barile. Solo che stavolta il pil è tornato a crescere al 4,5% nel 2010 per poi scendere progressivamente negli anni successivi. Un tasso dimezzato rispetto al decennio post default.

 

La terza crisi arriva a partire dal 2014, quando il prezzo del petrolio si dimezza e, in aggiunta, arrivano le sanzioni dei paesi occidentali contro l’annessione della Crimea e le altre azioni aggressive di Putin in Ucraina. Sebbene le sanzioni europee e americane fossero tutto sommato leggere, con un effetto negativo calcolato in qualche punto decimale annuo, la recessione fu meno intensa rispetto a quelle precedenti (il pil scese del 2,5% nel 2015 e dello 0,2% nel 2016) ma più profonda rispetto agli altri paesi produttori di petrolio. E, soprattutto, la ripresa negli anni successivi è stata più flebile che in passato, attorno all’1,5% annuo.

 

È come se da ogni recessione la Russia esca con un tasso di crescita dimezzato rispetto alla ripresa dalle crisi precedenti. E questo perché l’economia russa ha dei seri problemi strutturali, dal cattivo funzionamento dei mercati al mancato rispetto dei diritti di proprietà, dall’assenza di concorrenza alla corruzione, dalla pessima dinamica demografica alla produttività stagnante che Putin non ha affrontato. Il problema per la Russia è che, con questa crisi, tutto è destinato a peggiorare. Rispetto alle recessioni, stavolta le sanzioni sono molto più dure e il paese quasi tagliato fuori dall’occidente e dal suo principale partner economico che è l’Unione europea. Le sanzioni che impediscono le importazioni di prodotti e componenti tecnologiche avranno un notevole impatto negativo difficile da aggirare nel breve termine. La fuga degli investitori esteri avrà un effetto duraturo sull’economia russa, così come l’emigrazione dei giovani più qualificati. Questo isolamento taglierà fuori la Russia da molte catene globali del valore e, spingendo il paese verso una parziale autarchia, renderà le imprese russe meno competitive e più difficili le riforme necessarie per aumentare la produttività e diversificare l’economia.

 

La Russia, che già viaggiava su una prospettiva di crescita dell’1-1,5%, un tasso molto basso rispetto alle economie emergenti, si vedrà ridurre ulteriormente il proprio pil potenziale. È vero che per ora può contare su un prezzo elevato del gas e del petrolio, ma proprio questo è un enorme segnale di debolezza. Nelle crisi precedenti, la Russia è entrata in recessione quando il prezzo del petrolio crollava, mentre ora sta vivendo la più grave contrazione del pil con i prezzi dei beni energetici che sono a livelli record. Già ora, a causa delle sanzioni, la Russia si vede costretta a ridurre la produzione di petrolio e a vendere a sconto di 20-30 dollari rispetto al prezzo di mercato. Cosa succederà quando nel giro di due anni l’Europa ridurrà la sua dipendenza energetica dalla Russia e i prezzi scenderanno?

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali