Bomba nucleare e gas, le armi spuntate di Putin

Luciano Capone

Lo Zar viene descritto come invincibile perché minaccia di sganciare l'atomica e di chiudere i rubinetti. Ma sa che non è l'unico ad avere l'atomica e che la Russia ha più bisogno dei nostri euro di quanto l'Europa abbia bisogno del suo gas

In larga parte dell’opinione pubblica occidentale pare ormai diffusa la sensazione di una sorta di invincibilità di Vladimir Putin, a causa di due armi: la bomba atomica e il gas. La prima sarebbe per lo zar la garanzia per vincere la guerra militare (può “sventrare l’Ucraina” pigiando un bottone), mentre la seconda sarebbe l’assicurazione per vincere la guerra economica contro l’occidente (può resistere alle sanzioni e lasciarci al freddo chiudendo i rubinetti). 

Ciò che fa sembrare così potente Putin ai nostri occhi è l’assertività con cui costantemente minaccia sia il ricorso alla bomba atomica sia la sospensione delle forniture di gas. Ma in realtà le cose non stanno in questi termini. 

 

Sul lato militare Putin è ben consapevole di non essere l’unico a possedere gli ordigni atomici e che, in caso di un suo sconsiderato first strike, una risposta devastante non tarderebbe ad arrivare. Non è un scenario auspicabile né tranquillizzante, ma proprio la mutua distruzione assicurata è un elemento di quell’equilibrio che dal Dopoguerra ha evitato l’uso di armi nucleari.

  
E anche sul lato economico, con una Fortezza Russia molto più fragile di quanto Putin pensasse, l’arma del gas è più spuntata di quanto appaia. Se ne sono resi conto i paesi europei, Francia e Germania in testa insieme all’Italia, che hanno respinto il diktat di pagare il gas in rubli anziché in euro per continuare a essere riforniti. Quando i paesi occidentali hanno annunciato piani di emergenza per fare a meno del gas russo in caso di violazione dei termini contrattuali sui pagamenti, Putin ha fatto una mezza marcia indietro. Il decreto presidenziale firmato giovedì prevede che gli acquirenti di gas dei paesi “ostili” debbano aprire conti sia in rubli sia in valuta estera presso Gazprombank, la banca non sanzionata attraverso cui avvengono le transazioni: in sostanza si continuerà a pagare in euro, ma simultaneamente avverrà una conversione in rubli. Un provvedimento che non ha alcun effetto sostanziale, anche perché la Banca centrale di Russia aveva già imposto a tutte le imprese russe di convertire in rubli l’80 per cento dei ricavi in valuta estera. Con questo decreto si aumenta solo la quota al 100 per cento, ma non c’era neppure bisogno di un provvedimento del genere per ottenere questo risultato visto che Gazprombank è una banca statale e avrebbe potuto farlo autonomamente su input politico.

 

A pensarci bene, non ha alcun senso che la Russia minacci i propri clienti di chiudere i rubinetti perché essi pretendono di pagare in valuta pregiata, che è proprio ciò di cui la Russia ha immenso bisogno. L’operazione di Putin ha un evidente significato politico-simbolico: mostrare ai russi e ai cittadini occidentali la sua forza, imponendo la sua volontà sui paesi “ostili” che hanno sanzionato la Russia. Ma i paesi occidentali hanno svelato il bluff di Putin, mostrando la sua enorme difficoltà nel reagire alle sanzioni se non facendosi molto più male. Perché la Russia ha più bisogno dei nostri euro di quanto noi abbiamo bisogno del suo gas.


D’altronde, nonostante i prezzi dei gas e petrolio a livelli record, cosa che storicamente traina la crescita russa, il paese sta vivendo la sua crisi più profonda dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Secondo le previsioni della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Ebrd), l’organismo finanziario di sviluppo nato dopo la Guerra fredda che opera nell’Europa dell’est e dell’Asia centrale, quest’anno il pil della Russia si ridurrà del 10%, che rispetto alle previsioni pre guerra di una crescita al 3% vuol dire un crollo di 13 punti. Al contempo, l’inflazione schizzerà al 20%. Sono stime sovrapponibili a quelle di qualche giorno fa della Banca centrale della Finlandia. In pratica dopo quella ucraina, devastata dalle bombe, l’economia russa è quella che ne esce peggio dalla guerra. E a differenza di tutti gli altri paesi della regione che torneranno a tassi di crescita sostenuti nel 2023, il pil russo resterà stagnante sui livelli di 10 anni fa per diversi anni. Il settore manifatturiero russo, tra calo della domanda interna crollo di quella estera, inflazione e mancanza di componenti essenziali che non arrivano più dall’occidente, è in crisi profonda. L’indice Pmi di S&P Global a marzo è sceso 44,1 punti, un crollo allo stesso livello con la stessa rapidità delle prime fasi dell’epidemia Covid nel 2020. 


Pertanto, il gas e il petrolio non solo non proteggono la Russia dalle sanzioni e dalla recessione, ma non sono neppure un’arma di ricatto da poter puntare contro l’occidente. Anzi, è vero il contrario: è ciò su cui l’occidente può fare ulteriore pressione per mettere alle strette Putin. Gas e petrolio rappresentano per la Russia la metà dell’export e un terzo delle entrate fiscali. Come sottolinea l’Ebrd ulteriori sanzioni sul gas “comporteranno una perdita di entrate in valuta estera per le società energetiche e potrebbero portare a una crisi finanziaria più significativa per la Russia”. 


Putin non è così forte come vuole far credere: la minaccia di staccare il gas è solo una pistola puntata alla sua stessa tempia. Se l’Europa avesse un po’ più di coraggio dovrebbe svelare quest’altro bluff invitandolo a premere il grilletto. 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali